Nel dicembre 2015, in occasione della COP21 di Parigi, 196 nazioni hanno firmato un importante accordo per contrastare il cambiamento climatico in atto.
Alla conferenza, la Cina si era presentata in “qualità” di maggiore emettitore mondiale di CO2, prima produttrice mondiale di carbone e quinta di petrolio. Ovviamente, la dichiarazione di intenti presentata per l’occasione fu giudicata complessivamente insufficiente e inadatta a soddisfare i requisiti climate-friendly a cui avrebbe dovuto sottostare.
In effetti, il dibattito più intenso durante i lavori riguardava proprio quei Paesi la cui rapida crescita economica era sostenuta dai combustibili fossili: Cina e India su tutte. La loro posizione era che, essendo ancora in via di sviluppo, sarebbero state giustificate ad utilizzare fonti d’energia rudimentali ed inquinanti come il carbone, dato il loro costo minore. I critici invece sostenevano che, in quanto si trattasse comunque di due dei Paesi che emettono più CO2 al Mondo, i due colossi asiatici avrebbero dovuto attenersi alle regole parigine.
Undici mesi più tardi, in occasione del G20 di Hangzou, Barack Obama e Xi Jinping hanno congiuntamente ratificato il Trattato di Parigi, e nonostante le critiche, la Cina sembra davvero intenzionata a cambiare rotta. Sebbene rimanga saldamente in testa alla classifica dei consumatori di carbone (45,8% del consumo mondiale nel 2015), non si può dire lo stesso per il petrolio. A fine 2016 il numero dei pozzi di estrazione è rimasto invariato rispetto alla fine del 2015, e la China National Petroleum Corporation (la più grande e vecchia estrattrice di petrolio nel Paese) pianifica di tagliare gli investimenti per le esplorazioni del 20% già nel 2017. A questo bisogna sommare l’obsolescenza dei giacimenti già in attività e l’aumento del prezzo globale del petrolio, che non permetterà alla Cina di mantenere i livelli di importazione alti come quelli del Dicembre 2016 (8,6 milioni di barile al giorno).
Se l’orizzonte per la decarbonizzazione è ancora di lungo periodo, la leadership cinese nel settore delle rinnovabili è materia attuale. Oggi cinque delle sei più grandi aziende produttrici di pannelli solari sono cinesi. Stesso discorso per le pale eoliche, dove cinque aziende cinesi si assestano tra i primi dieci posti al mondo. Dopo il sole e il vento, anche un’ulteriore risorsa per il settore delle rinnovabili è ormai saldamente nelle loro mani: il litio. Le aziende cinesi controllano rispettivamente il 90% del segmento minerario e il 72% del segmento della lavorazione di questo prezioso elemento. Nel 2016, il prezzo di questo metallo è aumentato vertiginosamente, poiché risulta fondamentale nell’assemblaggio delle batterie lithium ion, utilizzate dai maggiori produttori di auto elettriche al mondo, Tesla in testa. A Settembre dello stesso anno, Tianqi Lithium, grazie all’acquisto di quote presso la cilena SQM, è diventata il leader mondiale nella produzione di questo tipo di batterie.
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Complessivamente, nel 2015, la Cina ha più che doppiato gli Stati Uniti come maggiore investitore domestico in energia rinnovabile, con un capitale totale di circa 102 miliardi di dollari contro i 44 americani. Per quanto riguarda gli investimenti internazionali, ”solo” contando gli otto progetti cinesi che hanno superato il miliardo di dollari, sono stati investiti 20 miliardi. L’anno scorso, questa cifra è aumentata del 60%, raggiungendo quota 32 miliardi. La IEA (International Energy Agency), nel suo World Energy Outlook del 2016, prevede che entro il 2021 la Cina avrà installato il 40% dell’energia eolica mondiale e il 36% di quella solare. Gli investimenti portano anche posti di lavoro. Infatti la Cina occupa 3,5 degli 8 milioni di lavoratori nel settore delle rinnovabili.
La Cina sta davvero cementificando la propria leadership nei mercati delle energie pulite, e lo sta facendo a colpi di cifre record. Nel frattempo, gli Stati Uniti, in prima linea nel criticare gli asiatici alla COP21, sono nel bel mezzo di un passaggio di consegne istituzionali e registrano una clamorosa battuta d’arresto nella corsa delle rinnovabili. Il presidente eletto Donald Trump ha già annunciato che farà di tutto per ritirare gli USA dagli accordi sul Clima stipulati a Parigi e ratificati solo qualche mese fa da Obama. Anche il Clean Energy Act, legge emanata nel 2009 in sostegno al movimento delle rinnovabili, è a rischio, e con esso anche tutti i sussidi per la ricerca scientifica in questo campo (batterie in primis). Il prossimo segretario di Stato, Rex Tillerson è l’ex CEO di ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifera del mondo, e alla luce delle difficoltà che stanno affrontando i produttori americani, questa nomina ha tutta l’aria di un bail out a favore del Big Oil.
Le ambizioni cinesi sono enormi, esattamente come il loro potenziale attuale e al gap di know how che si è creato in questi ultimi anni. Senza dubbio saranno loro a guidare l’energy transition che ormai tutti si auspicano.