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Popolarissimo sui social, Olavo è ossessionato dai “comunisti” e spaccia ogni sorta di teoria del complotto, con i moduli retorici tipici del populismo. Ma il suo successo non va sottovalutato, e dice molto sul divario tra “popolo” e élite accademiche.

Ieri, il primo gennaio 2020, terminava il primo anno di Jair Bolsonaro alla presidenza del governo brasiliano. A un anno di distanza il suo consenso sembra essere in caduta libera, complici soprattutto una politica interna estremamente aggressiva (nello Stato di Rio de Janeiro record di persone uccise per mano della polizia), una terribile gestione degli incendi in Amazzonia e la scarcerazione, avvenuta un po’ a sorpresa lo scorso 8 novembre, del suo rivale principale, l’ex presidente Lula. Mentre da un lato si sta raffreddando l’entusiasmo nei confronti delle sue promesse non mantenute (su tutte, quella di eliminare la violenza dal Brasile, punto cardine della sua propaganda elettorale), dall’altro resta ancora molto caldo il minestrone ideologico che ha portato alla sua elezione, incarnato alla perfezione dalla controversa figura di Olavo de Carvalho, il “filosofo” e intellettuale più influente del Brasile, ma ancora poco noto al di qua dell’Atlantico.

“Una delle persone più importanti della storia del Brasile”. “È un’ispirazione e senza di lui Jair Bolsonaro non esisterebbe”: con queste parole lo ha definito Eduardo Bolsonaro — figlio di Jair, anche lui politico. Parole importanti, pronunciate a Washington DC, nel Trump International Hotel, in occasione della proiezione del film dedicato alla vita di Carvalho, O Jardim das aflicoes, “Il giardino delle afflizioni”. L’opera, girata negli Stati Uniti nel 2015, a Richmond, capitale della Virginia, dove attualmente vive il filosofo, riprende il titolo di un suo libro e ripercorre le tappe del suo pensiero. Un dato che salta subito all’occhio: O Jardim das aflicoes è stato la più grande raccolta di finanziamenti collettivi della storia del Brasile, con circa 315 mila Reais e 2800 investitori totali, prima di essere battuto nelle statistiche da Bonifacio: o fundador do Brasil, nel 2018.

Soprannominato il guru di Bolsonaro, Olavo de Carvalho gode di una popolarità immensa sui social. “Filosofo” autoproclamato — non è laureato in alcuna materia, non hai mai frequentato l’università (che lui ritiene un’istituzione “da comunisti”) e di conseguenza non può insegnare in alcun istituto — Olavo insegna filosofia online, attraverso il proprio canale personale: è il web il suo mondo, lo strumento che lo ha reso famoso e che ha permesso il suo successo. È uno di quei personaggi che senza YouTube, Facebook e Twitter probabilmente non entrerebbero neanche nel dibattito pubblico, ma da qui ad essere definito “un pezzo grosso del Movimento” — come lo ha chiamato Steve Bannon durante la presentazione del suo film — il passo non è breve. “Olavo non è importante solo per il Brasile”, ha detto l’ex stratega di Donald Trump, “egli ha un’importanza nel contesto mondiale del movimento populista di destra, è un pensatore seminale”.

Ci sono delle ragioni ben precise comunque dietro il suo rifiuto delle università, ragioni che ci dicono qualcosa di più sul suo modo di vedere le cose. “Le facoltà brasiliane producono il 50% degli analfabeti per anno”, afferma in un video. Un dato che non rivela semplicemente l’inefficienza del sistema educativo, ma dovrebbe nascondere, dietro la presunta precisione statistica di una percentuale completamente inventata, una realtà molto più inquietante: il complotto messo in atto dalla sinistra globalista contro il popolo carioca. “I professori brasiliani,” continua, “non sono solo ignoranti, ma impongono la propria ignoranza agli alunni”. Ad essere sotto accusa è soprattutto la facoltà che lui non ha mai frequentato, ovvero quella di Filosofia, che, “non forma filosofi. Sta consumando il denaro pubblico solo per il suo proprio benestare o per propaganda politica”. Accuse molto gravi che minano il funzionamento della democrazia brasiliana alla base, colpendo il suo sistema educativo superiore. Se i professori sono corrotti non può non esserlo anche tutta la classe politica che con quei professori ha relazioni o altri tipi di interesse in gioco – interessi che rispondono in ultima istanza alla sete di potere delle grandi lobby di sinistra. Ma vediamo questa teoria un  po’ più da vicino.

Secondo Olavo esisterebbe un’organizzazione globale – che egli chiama Consórcio – di “grandi capitalisti e banchieri internazionali, impegnati nell’instaurare una dittatura mondiale socialista”. È un’idea simile a quella che troviamo in Europa nei movimenti populisti d’ispirazione sovranista, che considerano l’Unione Europea alla stregua di una dittatura perpetrata dalla Banca Centrale e dalle varie élite finanziare sulle popolazioni dei singoli paesi. Nel caso di Olavo, però, questa idea arriva alla contraddizione più estrema: queste élite infatti non si accontenterebbero solamente di abusare del proprio potere limitando quello delle classi subalterne, ma starebbero anche cercando di imporre un regime di stampo socialista – curiosamente, contro l’interesse del popolo. Questo significa che, nella visione di Olavo, i grandi capitalisti cercherebbero di limitare il proprio profitto e di ridistribuire la ricchezza in modo più omogeneo (principio del socialismo) per aumentare il proprio potere, contro quello del popolo: evidentemente un non-senso. Questa affermazione, come molte altre sostenute dal filosofo, non ha alcuna spiegazione logica plausibile, e può essere compresa solo in un contesto di continua  propaganda contro la sinistra.

Una vera e propria ossessione paranoica è quella di Olavo per i comunisti, che per lui non rappresentano semplicemente un partito politico o una posizione ideologica, ma sarebbero invece dei criminali, degli assassini e dei terroristi. Il 12 novembre, ad esempio, in uno dei suoi tantissimi post su Facebook, scrive: “Voi pensate che i comunisti abbiano mai cessato, fosse anche per un solo giorno, di infiltrarsi nelle Forze Armate per usarle come strumenti dei propri piani?”; mentre, solo qualche ora prima: “O l’educazione anticomunista è COSTANTE, COMPLETA E ONNIPRESENTE, o tutti i comunisti finiranno per vincere anche le battaglie che sembrano perdere”. Basta prendere queste due affermazioni per capire che si tratta di un atteggiamento maniacale, considerando che il Partito Comunista del Brasile (PCdob) è una forza estremamente marginale nello scenario politico brasiliano, che solitamente prende l’1 o il 2% dei voti alle elezioni parlamentari, ci rendiamo conto che i comunisti sono ben lontani dal poter vincere mai alcuna battaglia, e che di conseguenza non è necessaria alcuna “educazione anticomunista” – a meno che per “comunisti” non s’intenda: tutte le forze politiche della sinistra.

Carvalho a una cena all’ambasciata brasiliana a Washington nel marzo 2019, seduto tra il ministro agli Affari Esteri Araújo e Bolsonaro.

È proprio questo il caso di Olavo. Sottolineando come sempre l’urgenza della lotta anticomunista, in questo tweet dell’8 novembre paragona il “Foro di Sao Paulo”, l’associazione che dal 1990 riunisce i partiti e le organizzazioni di sinistra dell’America Latina e dei Caraibi, ai “comunisti”, utilizzando tranquillamente i due termini come sinonimi. “Il Brasile è il Paese delle opportunità perdute”, scrive. “Il tempo di combattere efficacemente il Foro di San Paolo È GIÀ PASSATO. Se il governo non si sveglia ORA, corre il rischio che la sua unica realizzazione, a conti fatti, consista nel consegnare ai comunisti una casa più ordinata”. Un’interpretazione quantomeno discutibile, soprattutto se pensiamo che i partiti che partecipano alle riunioni del Foro sono oltre 100 e rappresentano una gamma molto eterogenea di posizioni politiche. Oltre ai comunisti infatti vi fanno parte i partiti dei lavoratori, i socialdemocratici, i nazionalisti, le organizzazioni legate alla sinistra cattolica, vari gruppi etnici e ambientali, ecc. – in poche parole tutte le forze della sinistra. Ma per Olavo c’è poca differenza: sono tutti comunisti.

È molto frequente da parte sua manipolare le parole e i concetti per distorcere completamente la realtà politica del mondo in cui viviamo.

La sensazione che si ha leggendo i suoi post è che il Brasile sia sotto attacco, la rivolta popolare contro le élite è urgente, le accuse assumono spesso toni profetici, l’apocalisse è vicina e i comunisti se ne stanno in agguato pronti per sferrare il loro colpo decisivo. Giornalisti, giudici, professori, le classi colte in generale: tutti corrotti, servi della sinistra globalista e della criminalità organizzata.  L’8 novembre, in seguito alla notizia della scarcerazione dell’ex presidente Lula, ha scritto: “L’STF (cioè il Tribunale Supremo Federale) è un organo subordinato al Foro di Sao Paulo”, mentre, appena un minuto prima: “Tra pochi mesi, parlare contro il Foro di Sao Paulo sarà proibito”. Frasi che non significano nulla, nessuna analisi, nessun argomento, solo sentenze perentorie e condanne definitive. Le stesse cose sono ripetute all’infinito, il senso della storia è travisato completamente, il richiamo al popolo è costante e Bolsonaro, comunque vada, sta sempre dalla parte dei giusti: “Il presidente Bolsonaro ha fatto MOLTO DI BUONO a favore del Paese e NIENTE DI MALE contro i suoi nemici. Più continua in questa direzione, più loro vogliono ammazzarlo.”

Ma quella dell’avanzata comunista non è l’unica teoria del complotto a cui dimostra di credere il filosofo brasiliano; anzi, sono così numerose che forse sarebbe più rapido chiedersi quali sono quelle a cui non crede. Come riportato da The Intercept, negli anni Olavo ha avuto il coraggio di sostenere che i vaccini uccidono, che Barack Obama non è nato negli Stati Uniti, che la Pepsi usa cellule di feti abortiti per produrre il dolcificante, che non c’è risposta definitiva al fatto che la Terra sia rotonda e che ruoti intorno al sole. Tutte cose sostenute con la stessa leggerezza con cui una persona qualunque dice la propria su Facebook o su Twitter, più per guadagnare qualche like che per esprimere veramente un pensiero critico. I post di Olavo sono infiniti e tutti uguali: pur partendo da situazioni e circostanze molto diverse riesce sempre a finire col parlare del Foro di Sao Paulo, del complotto comunista, della corruzione dei giudici, delle fake news contro Bolsonaro, e via dicendo. 

L’obiettivo è quello di inventare un nemico comune moralmente riprovevole – l’accusa di depravazione delle élite è una costante della retorica populista – che deve essere sconfitto prima che il paese cada in mano alla criminalità organizzata. Allarmismo, menzogne, retorica anti-elite: la strategia è la stessa di quella utilizzata in tutti gli altri paesi in cui il populismo ha attecchito, con l’aggravante che in Brasile la violenza e il narcotraffico sono dei problemi reali per le comunità (non come gli immigrati in Italia, per capirci, o i negozi di cannabis legale), per cui è molto più facile fare breccia nel cuore delle persone promettendo pace, sicurezza e giustizia. E Olavo ha saputo fare breccia nel cuore di milioni di persone.

Eppure non è sufficiente accontentarsi di dipingere Olavo de Carvalho come uno pseudo-intellettuale qualunque che riesce ad avere successo semplicemente approfittandosi dell’ignoranza e della paura delle persone. La sua influenza così forte sul popolo brasiliano e il suo impatto decisivo nella costruzione ideologica del bolsonarismo sono dei dati di fatto che non possono essere trascurati e che ci obbligano a riflettere su cosa significhi essere intellettuali oggi. La distanza che separa le élite colte dalle masse è divenuta incolmabile, con le prime che hanno perso ormai ogni capacità di parlare alle seconde. Lo specialismo dell’alta formazione accademica non ha avuto alcuna eco sull’opinione pubblica generale – il successo del populismo nel mondo ne è la prova tangibile – ma si è risolto in un tecnicismo autoreferenziale che separa categoricamente le élite dal resto. È in questo divario che si sono inserite figure come Olavo, Salvini, Trump, Bolsonaro, etc., riuscendo a coinvolgere le masse nelle questioni politiche, facendo leva sui loro sentimenti e sulle loro emozioni. Dal momento che non viviamo tutti in un’enorme accademia, ma continuiamo a condividere un mondo che è lo stesso per tutti, l’intelligentsia progressista deve saper ripensare il proprio ruolo e il proprio linguaggio se vuole riconquistare il suo pubblico ed evitare di ridursi a un soliloquio intellettuale.  

In copertina e all’interno foto cc Alan Santos, via Flickr