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“I giornali non so se sono in crisi, chi ci lavora sicuramente sì. Perché si è assuefatto all’idea di dover stare nel flusso, inseguire il like di chi legge, quindi di compiacere la massa.”

Il 29 giugno scorso il Mucchio Selvaggio ha annunciato, dopo 41 anni di attività, la chiusura dell’edizione cartacea. La scomparsa dalle edicole di un altro storico magazine musicale non fa che approfondire la crisi della carta stampata, e ancora di più delle riviste di settore e della critica musicale stessa. In un panorama che vede riviste come Rolling Stone vendere circa quattromila abbonamenti l’anno viene da chiedersi quale sia il futuro di questo mondo.

Ne abbiamo parlato con il critico musicale italiano forse più conosciuto, sicuramente il più discusso: Michele Monina. Ha scritto, tra gli altri, per Il Fatto Quotidiano, Rolling Stone, Linkiesta ed è stato autore di molte biografie, tra cui quelle di Vasco Rossi e Jovanotti. A maggio Monina ha deciso di iniziare un crowdfunding per lanciare un nuovo magazine musicale. La campagna, intitolata “Monina Sì, Monina No”, è terminata ieri e ha permesso di raccogliere oltre undicimila euro che, nelle intenzioni del critico, sarebbero dovuti servire a sviluppare “Il tasso del miele,” il blog personale di Monina, per trasformarlo in un vero e proprio magazine.

Abbiamo chiesto a Monina di spiegarci com’è andata la campagna e ne abbiamo approfittato per farci raccontare quale sia, in Italia, lo stato di salute della critica musicale.  

Alla fine il magazine lo aprirai? Se sì, raccontaci un po’ come sarà.

No, non aprirò un magazine. O meglio, aprirò un magazine, ma non sarà il magazine che mi ero immaginato quando ho dato vita a questa iniziativa. E non lo sarà perché questa campagna mi ha mostrato un lato piuttosto singolare dei miei colleghi, o quantomeno dei giovani colleghi che avevo in mente di coinvolgere: si sono tutti mostrati molto ostili alla mia iniziativa, e quindi — suppongo — all’idea di prendere parte a un nuovo magazine musicale. Il che è bizzarro, dal momento che tutti coloro a cui avevo pensato mi hanno più volte chiesto di poter collaborare con me, salvo poi tirarsi indietro proprio nel momento in cui l’ipotesi poteva diventare un fatto. Amen. Darò vita a un magazine, o meglio per dirla letterariamente, a una rivista di critica e letteratura, nel senso che le mie due anime, quella dello scrittore e del critico musicale, troveranno campo fertile in cui muoversi, e in cui coinvolgere firme che stimo (e che sicuramente non si mostreranno altrettanto ostili dei miei giovani colleghi di cui sopra).

Com’era prevedibile, però, nessuno ha pagato mille euro per disegnarti sulla fiancata della macchina un cazzo con un chiodo arrugginito. Un po’ immagino te lo aspettassi. O no?

Certo che me lo immaginavo. La mia è stata una performance artistica, volendo, e i premi messi in piedi per il No erano tutti pensati per essere esplicitati proprio in luoghi votati all’arte, musei e mostre. Ma sapevo che nessuno avrebbe tirato fuori un euro per farmi stare zitto. Chi vuole che io non parli si limita a farmi perdere le collaborazioni che ho, non ha certo bisogno di prendere parte alle mie follie.

Malgrado ti dipingano come un critico spietato, sono molti gli artisti che ti hanno supportato in questa iniziativa. C’è un artista che non avresti mai pensato potesse aiutarti e invece l’ha fatto?

Questo è stato l’aspetto più sorprendente di questa iniziativa. Il fatto che abbiano aderito oltre 170 artisti, alcuni dei quali non conosco personalmente, parecchi, e alcuni dei quali ho avuto agio di stroncare ripetutamente nel corso degli ultimi anni. Su tutti, lo confesso, mi ha molto sorpreso l’adesione al Monina Sì di Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti. Perché l’articolo che in qualche modo lo evocava, uscito su Linkiesta, “Completamente sold out stocazzo,” è stato alla base della fine della mia collaborazione col Fatto Quotidiano, e pensavo lui se la fosse presa. Invece ho scoperto che a prendersela erano stati solo i miei ex colleghi, o meglio, coloro per i quali scrivevo mentre ero una firma del Fatto Quotidiano. Bella sorpresa.

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Per dirla con Valerio Scanu, “lui è famoso perché piglia e massacra.” Si riferiva a te, ovviamente, ma ti chiedo io: non pensi che negli ultimi anni la critica musicale si sia troppo spesso attorcigliata sull’ego dei critici (o di chi vorrebbe esserlo) rubando spazio all’oggetto della critica, la musica? Parlo dell’uso smodato della prima persona singolare, dell’opinione che sovrasta l’argomentazione, di articoli che hanno la pretesa di impressionare, eccetera.

Discorso complesso. Allora, partiamo dal presupposto che il critico musicale che tutti citano, seppur nella stragrande maggioranza dei casi senza averne mai letto una riga, Lester Bangs, era un critico che ambiva a essere scrittore. Fatto che in qualche modo contiene parte della risposta alla tua domanda. La critica musicale è sempre stata intrisa di personalismi. Non potrebbe che essere così. Perché la critica musicale è soggettiva nel suo modo di esprimersi, tanto quanto è oggettiva nel delineare analisi che poi gli altri devono semplicemente fare proprie.

Oggi, poi, con la musica alla portata di chiunque, nello stesso momento, la critica ha un valore ancora più alto. Perché un tempo era quasi una sorta di consiglio per gli acquisti. Uno ascoltava in anteprima un lavoro e ne parlava. Chi leggeva, se si fidava della firma, della sua credibilità, comprava a scatola chiusa il disco. Oggi la faccenda è più complicata, quindi chi legge le critiche cerca altro, cerca degli strumenti per decodificare quello che ascolta, o più semplicemente, e più spesso, cerca i pensieri, le analisi di chi scrive. Come spesso capita agli scrittori, e io mi sento decisamente più scrittore che critico musicale — sicuramente non mi sento giornalista musicale — nello scrivere si dicono verità che neanche si sa di conoscere. Si hanno intuizioni che gli altri, per mancanza di mestiere, di tempo per analizzare a fondo, o più semplicemente per assenza di talento, non hanno. Quindi, parlo per me, le mie critiche sono intrise di prima persona singolare. Ma io non esprimo opinioni, di per sé opinabili. Esprimo analisi, teorie contestabili con altre analisi e teorie.

Ma scrivendo di musica non si rischia di scadere eccessivamente nell’autoreferenzialità?

Anche qui si potrebbero aprire altri discorsi. Di che “io” si sta parlando? L’io che metto nei miei scritti non necessariamente è uguale all’io che scrive. La scrittura è di suo finzione, anche nel momento in cui è vera.

Il taglio dei pezzi oggi è sempre più personale, non è che forse abbiamo sempre meno cose da dire sulle canzoni e sempre più voglia di passare per intellettuali o influencer?

Onestamente leggendo molti scritti di musica in rete, cioè nel solo posto in cui si scrive di musica oggi con un pubblico che poi legge, tutti questi personalismi non li vedo. Sicuramente non vedo intellettuali.

Il livello della scrittura, fatte debite eccezioni, spesso dedicate alle nicchie musicali, è davvero basso. Io sono un intellettuale. Vengo dal mondo dei libri, che peraltro non ho mai abbandonato.

E sono presumibilmente, almeno nell’ambito della musica, un influencer, perché vengo letto e ascoltato.

Parlando del motivo che ti ha spinto a lanciare la raccolta fondi, tempo fa in un’intervista raccontavi di aver concluso la tua collaborazione con Il Fatto Quotidiano a causa di pressioni ricevute dal mondo discografico. E io che pensavo che anche la discografia non se la passasse più bene come una volta. Questo significa che i giornali sono ancora più in crisi delle etichette?

I giornali non so se sono in crisi, chi ci lavora sicuramente sì. Perché si è assuefatto all’idea di dover stare nel flusso, inseguire il like di chi legge, quindi di compiacere la massa. E per compiacere la massa, illusione pia, queste stesse persone si sono convinte di dover per forza essere carini nei confronti di chi opera nel mondo della musica, dai cantanti, ovviamente, si vedano i tanti che leccano loro il culo sui social, cercando risposte o cuoricini, ma anche manager, promoter o discografici. Tutto finto, perché in realtà è l’autorevolezza della firma a pesare, non certo l’essere considerati innocui o compiacenti. Poi, chiaro, se ambisci a finire dentro un talent o a farti pagare viaggi all’estero per presentazioni di dischi, magari, devi essere carino e coccoloso, ma a me non interessa nulla di tutto questo e sono sempre andato dritto per la mia strada. Motivo per cui, lo dico cercando di fare astrazione da me stesso, nel giro di quattro anni, cioè da quando ho ripreso a scrivere di musica, sono tornato a occupare una posizione importante, nel panorama della critica musicale. Se in tanti artisti si sono fatti vivi per appoggiarmi, più che per una forma di Sindrome di Stoccolma, è perché hanno stima in quello che faccio, non certo perché metto loro cuoricini o stellette nelle recensioni.

È per questo che negli ultimi tempi circolano solo recensioni positive?

Esatto: è pieno di gente che vuole stare seduta tra i giornalisti nella finale di Amici, o che ambisce a farsi i selfie coi cantanti, o ancora che vuole prendersi un iPad per premio alla presentazione del nuovo di Mengoni. Se sei cattivo e stronchi, come spesso mi capita di essere descritto, premi non me ne danno. Anche per questo evito di frequentare i colleghi, che per altro neanche credo siano esattamente mie colleghi, non vorrei pensassero che sono cattivo davvero.

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Te l’avrei chiesto prima o poi, lo sai, cosa ne pensi della copertina di Rolling Stone su Salvini e di tutto quello che ha scatenato? Da abbonato a RS (siamo una specie in via di estinzione lo so), ci sono rimasto abbastanza male, soprattutto per la malafede con cui è stata fatta la campagna.

Ho lavorato a RS solo tre mesi, durante la gestione Lucarelli, solo perché me lo ha chiesto lei. La rivista mi ha sempre fatto cagare, e devo dire che se possibile standoci dentro sono riusciti a farmi peggiorare l’opinione. Il ritorno di Coppola, come se già non bastasse Robertini, ha probabilmente contribuito a sancire la fine di questo importante marchio in Italia. Nessuna credibilità. Comportamenti scorretti — basti pensare che i miei articoli erano effigiati dalla scritta “L’opinione di Michele Monina,” modo poco elegante per dire che io ero un corpo estraneo al giornale. E ora una campagna che specula sui migranti e lo fa in questa maniera, blastati da una parte importante dei presunti firmatari. Insomma, se si doveva pensare a una fine indecorosa, ecco, sarebbe stata qualcosa di simile a questa cosa qui.

Secondo te può essere interpretata anche come un sintomo della crisi dei magazine musicali? Il sospetto — chiamiamolo così — venuto a tanti è che la questione migranti sia stata solo strumentalizzata e svenduta per un ritorno discutibile di visibilità.

Le riviste cartacee sono destinate all’estinzione, come i quotidiani e un po’ tutto quello che ruota in edicola, certo. Ma l’idea di un mensile è davvero antica, adesso. Ci stiamo abituando a una velocità che l’idea stessa di andare in stampa non può sostenere. La carta dovrebbe essere dedicata ai libri, credo, che non a caso hanno ambizioni diverse.

Parlando invece del tuo mestiere, qual è oggi il compito del critico musicale?

L’ho già detto prima, il critico deve fornire strumenti per decodificare la musica, per capirla. Dare anche indicazioni che l’ascoltatore non è tenuto a sapere. E più semplicemente deve fornire un’idea di musica.

L’opinione di chi fa critica non rischia di perdersi nel coro di voci che riempiono di commenti i post su Facebook e alimentano i thread su Twitter?

Questo vale per tutti. Se uno può decidere se vaccinare i propri figli, curarsi dal cancro con la limonata o per chi votare solo leggendo Facebook, figuriamoci se non può orientarsi nella musica. Solo che i professionisti sono professionisti, anche nel mondo dello spettacolo e della cultura.

Oggi che i dischi non si comprano più ha ancora senso pubblicare le recensioni?

Le recensioni intese come mera presentazione e interpretazione di un disco (vedi come sono naif) non mi ha mai particolarmente appassionato. Io preferisco scrivere editoriali, in cui magari parto anche da un disco e dalle sue canzoni, ma parlo di un mondo, mi perdo e cerco di far perdere il lettore. La recensione per sapere se un disco è bello o brutto, no, non credo abbia oggi un senso.

In definitiva: secondo te qual è il problema oggi della critica musicale?

Che la gente ha iniziato a pensare che quei buffi tipi che si fanno vedere in tv coi maglioncini color pastello, i calzetti di topolino o più semplicemente che scrivono notizie sui giornali siano in realtà critici, mentre sono appunto giornalisti. Gente che non sa scrivere, e che soprattutto spesso è arrivata a occuparsi di musica per una sostituzione di maternità o perché la firma che se ne occupava un tempo andava in vacanza. La musica va studiata, e la scrittura curata. I critici iniziassero a passare più tempo in studio di registrazione e meno negli studi televisivi, vedrai come migliorano le cose…


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