Tre piani temporali — una settimana, un giorno, un’ora — legati rispettivamente a tre elementi: terra, mare, aria. Dunkirk è un film sul tempo, un tempo che è destinato ad esaurirsi. Ma il tempo di chi?
Ciò che si impone, in Dunkirk, di fronte alle lacerazioni della storia, è la pura Forma: è il cinema nella sua essenza che si mostra con disinvolta decisione. Nolan fa un passo indietro mostrandoci così — attraverso la sua ombra, con una lucidità quasi imbarazzante (per lo spettatore) — i volti della disperazione e della vita.
Operazione Dynamo
È primavera. Siamo in Francia, nel 1940. Gli Yankees non sono ancora entrati in guerra. All’aurora di maggio inizia l’operazione Fall Gelb (Caso Giallo): l’incursione nazista per Belgio e Paesi Bassi diretta al cuore della Francia. Le divisioni francesi cadono come fuscelli di fronte all’esercito tedesco che, intanto, spinge da nord e da sud.
Il 13 maggio di quell’anno, dopo soli tre giorni dall’inizio dell’operazione, i tedeschi sono nelle Ardenne. Poi si passa per Sedan — tappa obbligatoria per raggiungere La Manica. Francesi e inglesi sono alle strette, al collasso, spinti freneticamente lungo la costa dall’avanzata nazista. Girano voci tra i soldati — che sono più di 300mila —, si dice che perderanno la guerra, che non torneranno a casa dai propri padri e dalle proprie madri. Si delineano scenari in stile La Svastica sul Sole di Philip K. Dick. Gli alleati tentano una controffensiva: non funziona. Non resta che la ritirata, via mare, dalla spiaggia di Dunkerque, ultima roccaforte oltre la quale, in lontananza, si vede casa.
21 maggio: l’esercito anglo-francese è circondato.
22 maggio: ultimo tentativo di controffensiva. Passano tre giorni, il comandante inglese sospende l’attacco. Viene presa una decisione drastica, evacuare le truppe via mare, anche con l’ausilio di imbarcazioni civili. Viene dato inizio all’Operazione Dynamo.
È il 26 maggio del 1940, i tedeschi iniziano ad attaccare con mezzi pesanti, fanteria e aerei della Luftwaffe; inizia Dunkirk.
Dunkirk
Tutto è ovattato da un piacevole silenzio. Uomini armati in divisa camminano inquieti per le strade di una città dimenticata. Spari, panico, la corsa. I soldati cadono uno dopo l’altro, tutti tranne uno. La fuga negli spazi chiusi, le vie, i sospiri e poi la spiaggia. Uomini in riga, in religioso silenzio, aspettano di essere battezzati dal mare del Nord. Nel film, se n’è parlato molto, ci sono poche battute. Il dialogo è ridotto all’essenzialità. Mi è sembrato naturale pensare ad Hemingway, al modo in cui ha raccontato la guerra nella letteratura. Nolan qui fa la stessa cosa con il cinema.
Tempo
Tre piani temporali — una settimana, un giorno, un’ora — legati rispettivamente a tre elementi: terra, mare, aria. Dunkirk è un film sul tempo, un tempo che è destinato ad esaurirsi. Ma il tempo di chi?
“La sceneggiatura è stata scritta seguendo il fulcro del pensiero filosofico di Pitagora: armonia è un’arte come il suono, la parola, la poesia e la danza,” dice Nolan in un’intervista, ed effettivamente il catatonico e spettrale lavoro di Zimmer fa costantemente precipitare le cose — per poi farle risalire — senza che ci si renda conto di essere all’Inferno: è l’orologio del nonno del regista, sepolto a Lancaster, in Francia.
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Il tema della temporalità è sempre stato un perno delle acrobazie nolaniane: l’intreccio e la reversibilità in Memento, l’eternità in Interstellar, gli incastri e le spirali in Inception. È qui il punto, perché se il tempo è una nostra forma e non ha uno statuto speciale nel reale, ecco che Nolan ci lascia il nostro tempo, sia per gestire i tempi narrativi e le emozioni, sia per delineare l’angosciosa vicenda della storia, seguendo ossequiosamente gli imperativi categorici del suo modo di fare cinema. Non è una storia di guerra, è una storia umana, fatta di deboli e di forti, di coraggio e di paura. Non c’è sangue, non c’è nemico, è pura suspense dietro l’occhio vigile di Hitchcock.
Suono e scala Shepard
L’orologio è un significante per noi, ci serve per misurare il tempo, un concetto che non sta fuori di noi ma dentro il soggetto. Per Nolan è qualcosa di più: è una bussola. Attraverso il suo personale senso del tempo, che magistralmente riesce a trasporre fuori di sé, ci conduce dentro l’uomo. È un gelido e formale valzer tra spazio e tempo in una stanza ricolma di uomini distrutti. Il ticchettìo che sentirete non è un suono artificiale, non è una melodia, è l’orologio che Nolan tiene in tasca. E quel suono, il suono del tempo passato, è più forte di ogni esplosione. La colonna sonora è solo il ticchettio nauseante ed esaltante di Chris Nolan.
“C’è un’illusione acustica, se vogliamo chiamarla così, che si chiama ‘scala Shepard’ e che avevo già usato in The Prestige con il compositore David Julyan. È un’illusione che fa credere che ci sia sempre un tono ascendente. È un effetto cavatappi. […] Ho scritto la sceneggiatura secondo questo principio, con tre linee temporali che danno una costante idea di intensità, di intensità crescente. Volevo costruire una musica con dei simili principi matematici.”
In pratica si ha la percezione di udire un tono sempre ascendente perché una scala viene suonata, nello stesso tempo, su ottave differenti. Alcuni toni scompaiono, o meglio, si sentono di meno rispetto ad altri, nello stesso istante, perciò si ha questa sensazione creepy che l’ascesa non termini più. È, paradossalmente, un Infinite Jest (letteralmente dico) sonoro, un inganno del cervello, della musica, della matematica e, chiaramente, il più bel gioco di prestigio che Nolan potesse regalarci.
Terra
Fionn Whitehead è Tommy, un un giovane soldato che, come tutti, cerca di salvare la pelle. Attorno a lui Gibson (Aneurin Barnard) e Alex (Harry Styles). Poi Kenneth Branagh nei panni del Comandante Bolton. Il piano di Tommy è quello di salire di straforo su una nave ospedaliera. Passeranno sette giorni prima che riesca a salpare. Come tutti.
Mare
Dawson (Mark Rylance) ha uno yacht e, insieme a suo figlio (Tom Glynn-Carney) e un suo giovane amico, viene incaricato dalla marina di recarsi a Dunkerque per recuperare i soldati in attesa di soccorsi.
Aria
Farrier (alias Tom Hardy), un pilota della Royal Air Force — con il volto coperto da una maschera per praticamente tutto il film (riferimento a Bane?) — cerca di fare piazza pulita dell’aviazione tedesca che sorvola senza sosta il cielo di quella Francia impaurita.
Tutti questi personaggi, da luoghi e tempi diversi, andranno a convergere verso un unico cono d’ombra in maniera così elegante da rendere Dunkirk, anche solo per questo, uno dei lavori più puliti e limpidi di Nolan.
In questo meraviglioso e rocambolesco sfaldarsi di spazio, tempo, carne e anima che è Dunkirk Nolan trova il finale perfetto per la sua Odissea: un’orfica ripresa dello spitfire di Farrier che, ormai a secco di carburante, plana silenziosamente sulla spiaggia. Farrier esce dall’abitacolo, dà fuoco all’aereo, si toglie la maschera. E, mentre aspetta, sappiamo chi sta guardando: non la fine del conflitto o del suo proprio tempo, ma l’Avversario. E in quello sguardo, così carico di dramma — che solo pochi attori possono dare con la sola forza dello sguardo — ci si ricompone nella linearità degli eventi, nell’idealità dell’orrore e nell’ordine della miseria umana.
Quella che viene raccontata, non a caso, non è la storia di una disfatta, e nemmeno la storia di una vittoria: è la storia di uomini che disperatamente si aggrappano alla vita. Che cosa essa sia, poi, rimane — anche per Nolan, credo — un pornografico mistero.
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