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Giovedì scorso, in una delle ultime serate calde dell’estate milanese, siamo stati al Magnolia al concerto di Frah Quintale e Carl Brave x Franco 126.

Prima del concerto abbiamo fatto quattro chiacchiere con il rapper bresciano: abbiamo scoperto che vive letteralmente in studio, che nonostante sia bravissimo non ha mai fatto alcuna scuola di canto e abbiamo parlato di cosa voglia dire fare musica homemade nel 2017, quando molti pezzi sembrano nascere da precise strategie di marketing.

Ciao Frah, come stai? So che è la prima volta che suoni al Magnolia. Scusa la domanda “da Panorama”, ma… sei agitato? Io lo sarei se fossi in te.

Grazie dell’incoraggiamento! (ride). Sono molto contento, sono molti anni che vengo al Magnolia a sentire i miei artisti preferiti, ora sono qui per suonare. Le cose stanno effettivamente iniziando a girare come vorrei, ma devo ancora abituarmici.

Eppure non hai iniziato da poco a fare musica, conosco da sempre i Fratelli Quintale — che, se posso permettermi, erano una figata. Come mai hai deciso di intraprendere la carriera solista? 

Sì, io e Merio abbiamo tirato su questo gruppo fin da ragazzini. Col tempo siamo cresciuti e siamo riusciti a prenderci il nostro spazio anche oltre la scena bresciana. La mia gavetta l’ho fatta lì, diciamo.

Nei Fratelli Quintale facevo molti ritornelli e iniziavo a prendere confidenza con il cantato, al di là del rap più grezzo.

Poi in realtà non è che il rap mi abbia stufato, anzi: mi piace però sperimentare e provare cose nuove. È arrivato il momento di fare bagaglio di tutto quello che ho imparato e fare qualcosa di mio. Dopo tanti dischi assieme abbiamo deciso che ognuno aveva bisogno di prendere la propria strada, ma senza chiudere il progetto, diciamo che è solo in stand-by.

Avevamo talmente tanta foga e abbiamo talmente tanto focalizzato l’energia sui Fratelli Quintale che non abbiamo mai pensato di fermarci, non abbiamo mai pensato di lavorare su noi stessi.

…ma ora sì. In che anno avevate iniziato? 

Direi dal 2005, fino al 2012 o il 2013.

E poi? Per cantare come canti ora hai studiato? 

No, zero, ed è una cosa di cui vado mega fiero. Già cantavo, no? Poi ho preso coscienza delle mie potenzialità e ora faccio ancora tutto in modo spontaneo. Come mi viene…

E direi che ti viene bene dai, negli anni ne ho visti tanti di rapper mettersi a cantare con risultati non sempre straordinari. Non sto parlando dell’autotune, anche se quello sarebbe un discorso a parte ovviamente. 

Tanti storcono il naso quando sentono l’autotune, io credo che non sia un problema. E credo che non sia un problema usarlo perché non si è capaci di cantare, quello che mi interessa è che il prodotto finale sia qualcosa di sincero che esprima quello che l’artista sente davvero dentro.

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Anche io ero visto male all’inizio, ho sempre avuto la vocazione di cantare e all’inizio nella scena rap se cantavi eri visto come un outsider. Ora credo che sia gli artisti che il pubblico siano tutti più pronti. Siamo in un momento molto florido per cose nuove, per esperimenti che anni fa sarebbero stati considerati strani. Si è alzato il livello di testa e dalla trap a qualcosa di più indie come Carl Brave x Franco 126 siamo diventati capaci di farci piacere più generi e mix di più generi senza essere troppo puristi, senza frenare l’istinto di fare musica.

Ma tu fai anche le basi? 

Sì, ma senza saper nulla, mi metto lì e provo buttare giù qualcosa con la tastiera. Quando sono soddisfatto di un loop o di qualche nota parlo con Ceri che ha fatto il Conservatorio e con lui sistemiamo tutto e creiamo le basi vere e proprie. Tipo, “Nei treni la notte” è nata così, un’idea nata ad orecchio su cui abbiamo lavorato.

Inoltre, quasi per completare le discipline dell’hip hop, so che vieni anche dal mondo del writing…

Certamente, però ora non ho più tempo. Credo che per coltivare l’arte per prima cosa serva disciplina e dedizione: se vuoi farla al top devi dedicartici con tutto te stesso. Fare il writer mi ha formato un sacco a livello di background e a livello di imparare proprio, mi ripeto, la disciplina di una materia. I graffiti sono sempre la stessa cosa in fondo, sono lettere, e quelle lettere dovevo trovare come farle, in un modo che fosse soltanto mio.

E fai rap a tempo pieno o hai altri lavori? 

No no, sto riuscendo a fare solo musica ora. A spingerla come vorrei. Quando ho avuto bisogno di soldi però ho fatto dei graffiti per serrande di negozi e qualcos’altro. Mi va bene come situazione perché comunque si tratta di un lavorare con l’arte. Ora però la musica sta andando bene e mi sta prendendo la maggior parte del tempo, tra poco forse riuscirò anche a pagarmi un affitto.

(ridiamo), perché stai a Milano adesso, no?

Sì, diciamo che sto facendo lo squatter nello studio di Undamento nel frattempo. Ma ora che le cose stanno iniziando a girare credo che toglierò il disturbo e ci andrò solo per fare la musica.

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Come ti stai vivendo Milano? L’impatto con la grande città, immagino che crei un sacco di possibilità ma che allo stesso tempo possa farti sentire sovrastato, a volte, essendo tu abituato a una realtà come Brescia, no? 

Sì, Milano mi sta dando molto ma è una medaglia a due facce. Il fatto di essere già affermati in una piccola città è stato un vantaggio, però: quando la gente si chiede che rapper ci sono a Brescia il nome Fratelli Quintale salta fuori sempre.

A Milano sono un pesce in mezzo al mare, all’inizio mi sono un po’ pigliato male e mi sono sentito tagliare le gambe, ma poi ho preso questa cosa come stimolo. Attorno allo studio di Undamento poi si è creata una realtà molto bella, ho conosciuto molti artisti più o meno di passaggio: a partire da Dutch Nazari fino a gente come Patrick Benifei e molti rapper, producer eccetera. È una cosa che a Brescia non potrebbe succedere, è stimolante a tal punto da farmi pensare che in questo momento Milano sia il posto migliore d’Italia dove fare musica.

Parliamo di musica, appunto: da quando sei Frah Quintale ho notato una certa maturità nei testi, che non sono più soltanto un esercizio di stile e tecnica: è come se mettessi in musica l’urgenza di confidare qualcosa a qualcuno, come fosse un amico, mi sbaglio? 

Sì vecchio, ho proprio bisogno di fare così oggi. Uno dei dischi che più ho apprezzato è stato Turbe Giovanili di Fibra perché ha fatto questa cosa fin dall’inizio.

Di solito funziona che prima impari i canoni, la tecnica, il linguaggio del rap, risultando anche stereotipato forse nei pezzi, però è una scuola. Poi quando hai fatto tua la musica puoi parlare dei cazzi tuoi ed è lì che ogni sforzo viene ripagato, e inizi veramente a sentirti realizzato. Poi vedo che quando parli con il cuore in mano la gente lo apprezza, inizia a volerti bene per davvero, dai loro le parole per i loro malesseri.

Poi conta che non sono una persona estroversa, e scrivere per me è come una terapia. Hai ragione quando dici migliore amico, la sera mi metto lì: foglio bianco, amico immaginario a cui dire qualcosa, penna e via…

Cosa ti piace della scena attuale? Cosa ascolti? 

In Italia? Di italiano non ascolto tanto… Carl e Franco spaccano, Samuel Heron, ovviamente Dutch… Coma Cose stanno tirando fuori delle cose veramente interessanti. E poi ovviamente ci sono le pietre miliari come Gué.

Ancora oggi? Anche il Gué Pequeno attuale? 

Sì sì, è il king assoluto del rap italiano. Ha sempre fatto rap e anche se viene da una scuola super vecchia è sempre riuscito a suonare attuale ogni volta in vent’anni. Ogni volta che fa un disco stila i nuovi canoni del rap. In un modo o nell’altro.

Ascolto per lo più però cose che vengono dall’estero, tipo Tyler, The Creator, i The Internet – sono in fissa con loro, pensa che hanno un chitarrista che ha 19 anni che non è andato in tour perché doveva finire la scuola. Poi vabbè Chance The Rapper, Kendrick…

…che suona con una band assurda. Ti piacerebbe suonare con la band? 

Ci stiamo lavorando, è il passo successivo. Con il nuovo album magari.

Prima dicevamo del senso di parlare con un amico, e credo che il nuovo album segua questa direzione. Già la playlist di Spotify Lungolinea è un bell’esperimento in questo senso, no? 

Sì, è proprio questo, vedo che nel rap si è persa la cosa di fare gli skit nei dischi. Mi ricordo che nel primo disco dei Meganoidi c’era alla fine un silenzio di quindici minuti e poi una ghost track dove ci sono loro in studio che cazzeggiavano, questa cosa mi ha avvicinato tantissimo alla loro realtà e al loro progetto. Mi han fatto veramente impazzire: Lungolinea parte così.

Ci sono strumentali, pezzi interi, alcune tracce fatte solo di messaggi vocali, e questa cosa avvicina molto la gente… Riesco a far vedere come nasce un disco e non solamente dare ai fan un disco preimpostato come prodotto di marketing. Mi sono sempre sentito homemade, mi sento ancora sul piano superiore di poter dire che non voglio fare quello pettinato che se ne esce con pezzo singolo, video, album. Io quando faccio un pezzo lo butterei fuori subito, anche se magari non funziona proprio così.

Lungolinea in questo senso mi sembra una figata, è il futuro…

Ah, ecco, mi hai anticipato: il futuro? 

Ho finito le vacanze – cioè, vacanze, son rimasto a casa – stiamo per impacchettare il disco anche se ancora non posso dirti niente. Ci saranno pezzi già usciti e alcuni inediti.

Ci saranno dei feat? 

Guarda, non lo escludo, però di solito non faccio molti feat. Ne faccio pochi ma non perché me la tiro, perché prima di farne vorrei avere del feeling con l’altra persona: non farei mai la strofa da zero per farmi pagare. È una cosa che deve accrescere e mi accresce perché alla fine del feat, di solito, hai trovato un amico.

Un amico a cui dedicare il prossimo disco… in bocca al lupo per il live! 

Eh, magari sì… Crepi!


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