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tutte le foto cortesia di Submarine channel

“Reality is a scarce resource”
—James Carey

Come il 3D, anche la realtà virtuale è stata a lungo una di quelle innovazioni chiacchierate che vivono di hype periodici senza mai però riuscire veramente a sfondare poiché le manca quel quid che le liberi dalle angustie del mero gabinetto delle curiosità. Negli ultimi 2-3 anni, però, e se vogliamo trovare una data simbolica dal 25 marzo 2014 — cioè da quando Facebook ha acquistato Oculus Rift, una delle aziende leader del settore, per 2 miliardi di dollari — sembra che si stia cercando di evangelizzarla come una tecnologia di primo piano a botte di mega-finanziamenti. Al di là delle sue applicazioni in diversi altri campi, che vanno dalla medicina alla meditazione, la realtà virtuale ha sempre portato con sé la promessa di rivoluzionare l’arte cinematografica.

Anche il 3D si era presentato con un similmente ambizioso programma ma dopo qualche prematura illusione di botteghino (come Avatar), sembra che gli iniziali entusiasmi si siano completamente dissolti per quanto riguarda l’home entertainment e notevolmente intiepiditi per quanto concerne il grande schermo, lasciando solitari pionieri come James Cameron a esplorare la possibilità di un 3D senza ingombranti occhialetti.

Farà anche la realtà virtuale la stessa fine nonostante le ingenti iniezioni di denaro? Difficile prevederlo, quel che è certo è che importanti festival cinematografici vogliono utilizzarla per rivitalizzarsi e rilanciarsi come manifestazioni all’avanguardia.

Ad oggi, il caso più eclatante è quello del Festival del Cinema di Venezia, che alla realtà virtuale dedicherà un’intera sezione della sua prossima edizione, in programma dal 30 agosto al 9 settembre, anche se l’allestimento dedicato alla realtà virtuale sarà aperto solo dal 31 agosto al 5 settembre. A quanto pare, non si tratterà solo di uno stratagemma per impepare un po’ la letterale piattezza delle proiezioni in 2D, ma di una una precisa scelta editoriale.

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La realtà virtuale avrà a sua disposizione l’intera isola del Lazzaretto Vecchio, un evocativo fazzoletto di terra a poca distanza dal Lido.

Il programma, chiamato Venice VR, proporrà 23 opere tra cui troviamo sia  installazioni ambientali sia cosiddetti “stand-up,” ovverosia postazioni in cui basta calarsi il visore (Oculus o HTC Vive) per immergersi in un mondo alternativo. Tre sono i premi riservati a questa sezione del festival: migliore VR, migliore esperienza (per i contenuti interattivi) e migliore storia (per quelli lineari). La curiosamente assortita giuria che li dovrà assegnare è invece composta da John “Blues Brothers” Landis, Ricky Tognazzi e la raffinata regista francese Céline Sciamma.

Per quanto riguarda il programma, abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Michel Reilhac, co-programmatore di Venice VR e poliedrico storyteller di fama internazionale che guida, coincidenze onomastiche, Submarine Channel, il media lab della casa di produzione cinematografica olandese Submarine dove si sperimentano nuove forme di narrazione con un duplice accento su interattività e immersività.

“L’atmosfera sull’isola è semplicemente magica” dice Reilhac, da poco tornato dalla laguna dove si è sottoposto ad un binge watching di realtà virtuale per vedersi tutte le 100 e passa opere presentate, “c’è così tanta storia lì.”

È il luogo adatto per ospitare pezzi come Alice, produzione francese di Mathias Chelebourg e Marie Jourdren che ibrida live action e animazione; ispirata ad Alice nel Paese delle Meraviglie è “una delle opere interattive più sofisticate che io abbia mai visto” dove, nel biondo ruolo di Alice, lo spettatore[footnote]È evidente che la definizione di “spettatore” nel caso della realtà virtuale e più in generale dello storytelling interattivo sia altamente limitante ma in italiano “utente” è privo della neutralità della controparte inglese “user” e per quanto mi riguarda è ancora troppo impregnato di reminiscenze burocratiche.[/footnote] può interagire in tempo reale con i personaggi della storia. O come The Sand Room, dell’artista americana Laurie Anderson, che si preannuncia come una delle opere più spettacolari della rassegna: “lì è come se si planasse attraverso enormi ambienti di lavagne tutte scritte col gesso” dice Reilhac mimando il gesto del volo, reso possibile dal movimento di due controller Vive. “Ad un certo punto si arriva in una stanza dove, se inizi a cantare, la tua canzone diventa una scultura. Allo stesso tempo puoi vedere le sculture create dalle altre persona prima di te e se le tocchi senti le loro canzoni. È qualcosa di veramente incredibile.” Un altro pezzo d’autore che sarà possibile vedere (o, per meglio dire, esperire) a Venezia è invece The Deserted, girato con videocamera Jaunt dal taiwanese Tsai Ming-Liang, già vincitore nel 2013 del Gran Premio della Giuria per Stray Dogs.

Alice
Alice

Non mancheranno poi opere fisicamente interattive, nel senso che vedranno la partecipazione di performer e attori presenti in situ, stile installazione di arte contemporanea. In questo senso, vale la pena di segnalare Draw Me Close, prodotto dal National Film Board canadese e dal National Theatre britannico, dove lo spettatore si cala nel ruolo di un figlio la cui madre sta morendo di cancro. Su un versante più mainstream ci sarà invece spazio virtuale anche per i 14 minuti di Gomorra VR e per un tie-in del film di Guy Richtie The Snatch che vanta Rupert Grint fra gli attori. E poi tanta animazione, qualche documentario e qualche gemma di puro virtuosismo visivo. In generale, si nota un apprezzabile numero di produzioni asiatiche non è un caso che anche il Busan Film Festival, uno dei più importanti festival cinematografici asiatici, dedicherà una sezione alla realtà virtuale nel corso della sua prossima edizione.

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Sembra che la realtà virtuale sia ancora un cane non addomesticato che tira il guinzaglio in tutte le direzioni, attirato da ogni cosa che vede muoversi e che sembra potenzialmente interessante.

Quel che è certo è che in questi tempi di dittatura dello storytelling — in cui le grandi saghe cinematografiche sembrano sempre di più episodi di serie TV sotto steroidi — la realtà virtuale con il suo allure esperienziale, da cinema “attrattivo-mostrativo” per usare un linguaggio da esame di Storia del Cinema I, è un utile reminder delle origini della Settima Arte, quando gli spettatori scappavano dal treno dei fratelli Lumière perché pensavano che li stesse davvero per travolgere.

Sul fine degli anni Ottanta il teorico della comunicazione James Carey sostenne che, per via dei mass media, la realtà era divenuta una risorsa limitata. Una trentina di anni dopo le sue versioni virtuali ed aumentate ci dimostrano che al contrario, a patto di averne una concezione più elastica e malleabile, la realtà è una sostanza in continua espansione.


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