Cosa resta della struttura giovanile di quello che un tempo era il più grande partito comunista d’Europa? Abbiamo parlato con alcuni di loro per capirlo.
“Forse ce la faremo.”
Sono le poco convinte parole con cui l’allora segretario Gianni Cuperlo, nel 1990, chiudeva il proprio discorso all’ultimo congresso della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Da quel momento la Federazione cessava di esistere con questo nome, per dare vita alla Sinistra Giovanile dei Ds, a sua volta trasformata, nel 2007, nella formazione junior dell’attuale Pd — i Giovani Democratici.
Quando il suo segretario era Enrico Berlinguer, la FGCI arrivava a contare circa 400 mila iscritti a livello nazionale e vantava una posizione di preminenza all’interno della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, l’organo che riuniva l’internazionale dei giovani comunisti di tutto il mondo.
Nel 1990 i tempi erano già parecchio cambiati, e il numero degli iscritti era attorno ai 55 mila, non molti di più, in realtà, di quelli contati in occasione dell’ultimo congresso dei Giovani Democratici, un anno fa. Ma anche soltanto a leggere le cronache di quei giorni — dai cori per l’intifada palestinese all’acceso antimilitarismo — si percepisce con grande chiarezza la profondità del cambiamento che ha investito la sinistra italiana — giovanile e non — nel giro di poco meno di trent’anni.
Che cosa rimane di quell’esperienza? Che cosa rappresentano, oggi, i Giovani Democratici? E soprattutto: c’è ancora spazio per una militanza politica giovanile organizzata, nell’epoca della crisi della democrazia rappresentativa? Dopo aver parlato con i giovani militanti della Lega Nord, abbiamo provato a sondare gli animi nell’ultimo grande partito di centrosinistra in Italia.
Ma siamo comunisti non tanto per quello che ci lega al passato, alla tradizione del movimento operaio, quanto per quello che ci lega al futuro.
Nichi Vendola, congresso FGCI 1985
I Gd oggi conservano la struttura capillare che era della FGCI, senza averne la massa critica. Quattro livelli territoriali, ognuno con la sua segreteria e la sua direzione, e una gerarchia che sembra più pagare tributo al formalismo del passato che rispondere a reali esigenze organizzative. “Una struttura così autoreferenziale rischia di allontanare i giovani piuttosto che farli entrare,” la mette giù Davide Skenderi, classe 1994, studente di giurisprudenza e segretario metropolitano dei Gd di Milano. “Questo schema andrebbe ripensato, ma cambiarlo dall’interno non è facile: da un lato c’è la gerarchia dei Gd, dall’altro c’è il rapporto con il Pd sancito da statuto. Noi cerchiamo di lavorarci attraverso i temi che scegliamo di affrontare.”
In Lombardia i Gd contano circa 1200 iscritti, a Milano sui 300, ma soltanto una quarantina di militanti attivi, con circoli distribuiti equamente tra le varie municipalità. Il tesseramento, a differenza di quanto avviene per i Giovani padani, è separato da quello del partito madre: si può far parte dei Giovani democratici senza far parte del Pd, anche se ovviamente è necessario sottoscriverne i valori. “La partecipazione a Milano sta crescendo,” mi racconta Davide, che è segretario dall’anno scorso.
“Abbiamo cercato di fare un cambio generazionale, invertendo la rotta, abbiamo reso la giovanile più giovane, mandando in pensione — per modo di dire — i ragazzi in uscita di 29-30 anni. L’anno scorso c’è stato il congresso e i numeri, come per gli altri partiti, erano gonfiati: si è cercato di tesserare quanta più gente possibile per portarla a votare. Per questo le tessere ora risultano in calo — ma non la partecipazione.”
Capitolo da dimenticare, il congresso dell’anno scorso è stato segnato da vari episodi spiacevoli: numeri anomali, risse e polemiche procedurali che hanno portato uno dei due candidati alla segreteria nazionale a ritirarsi dalla corsa, in quello che è apparso a molti come uno scontro di potere perfettamente simmetrico a quelli a cui il partito maggiore ci ha abituato nei suoi dieci anni di vita.
L’ultimo, forse il più rumoroso, si è appena consumato con la fuoriuscita di bersaniani e dalemiani e la nascita di Articolo Uno. In quel caso, i Gd si erano schierati apertamente contro la scissione, pubblicando una lettera aperta intitolata “Fermatevi, il partito è una cosa seria,” in cui si presentavano come “i caschi blu del Pd,” e organizzando un’occupazione simbolica dei circoli, proprio nel giorno in cui si consumava lo strappo definitivo.
#restiamouniti, parliamo delle questioni reali e non dei destini personali di questo o quel dirigente del @pdnetwork https://t.co/9qL13FYkv8
— Giovani Democratici (@gdnazionale) February 19, 2017
Riguardo alla scissione, Davide — che sostiene Renzi a congresso, pur non definendosi un “turborenziano della prima ora” — esprime le stesse perplessità di molti altri, dentro e fuori dal partito: “È stato un errore. C’erano questioni molto più politiche, che non la data del congresso, per cui una scissione sarebbe stata magari più comprensibile: quando c’era da votare il Jobs act, la legge elettorale… Poi è la solita politica autolesionista: si fa la riserva indiana a sinistra, con percentuali veramente esigue.” La scissione non ha comunque causato grandi scosse nei Gd: il gruppo giovanile resta compattamente nel partito che, tra pochi giorni, salvo colpi di scena, si riconfermerà a guida renziana. Ma quell’appello caduto nel vuoto è un ulteriore indizio della sua perdita di importanza, del suo scarso peso nel dibattito e nell’orientamento del partito maggiore?
Dipende molto, in realtà, dai rapporti di forza a livello territoriale. “A Milano per esempio funziona molto bene,” mi spiega Andrea Mascaretti, tesoriere dei Gd di Milano e membro della direzione nazionale — ma senza la tessera del Pd e attratto piuttosto dal progetto di Pisapia, Campo progressista. “A livello nazionale, invece, l’osmosi politica è nulla: non abbiamo mai visto un’istanza della giovanile ascoltata, non ci danno grande peso. Tanto che addirittura con Renzi si è creata una giovanile parallela, FutureDem.”
Quello di FutureDem è un tasto dolente. Il rapporto tra i due, per intenderci, è lo stesso che corre tra la giovanile di Noi con Salvini e i Giovani padani. Anche FutureDem, ufficialmente, è un’associazione indipendente dal Partito Democratico — ma solo per non contraddire in maniera troppo palese la Carta di Cittadinanza che regola i rapporti tra il partito e la sua giovanile, dove si legge che questa debba essere “l’unica organizzazione giovanile del Partito Democratico” e “l’unico luogo di elaborazione e di discussione su temi delle politiche giovanili del Partito Democratico.”
https://twitter.com/GiuliaIacovelli/status/852622600845090816
A scorrere il manifesto di FutureDem, però, si vede subito che anche qui il Partito Democratico figura come unico ambito d’azione di quella che si definisce come “una rete di giovani donne e giovani uomini di centro-sinistra ispirati dalle teorie del liberalismo sociale,” che puntano a svecchiare il partito spingendo, per esempio, a utilizzare “le nuove tecnologie e i social network non per la sola propaganda, ma per coinvolgere la popolazione giovane italiana.” Cosa che Matteo Renzi ha dimostrato più volte di saper fare con grande maestria.
È difficile vedere in FutureDem qualcosa di più di un progetto personalistico del segretario. Renzi, d’altronde, non ha nascosto nemmeno nel nome plagiato della propria mozione la voglia matta di cavalcare l’onda Macron — direttamente legato a FutureDem c’è infatti anche il Comitato Nazionale Millennials per Renzi (sic), che appoggia la mozione congressuale del segretario. Comprensibile, insomma, il fastidio dei militanti Gd, che nel manifesto vedono definita la propria organizzazione come “un recinto che impedisce ai giovani impegnati in politica di incidere concretamente.”
Ma alcune tematiche poste dai giovani renziani sono vere, importanti, e sentite anche dai Gd — come lo snellimento dell’organizzazione partitica. “Abbiamo troppe divisioni territoriali e organi troppo estesi,” spiega Andrea, “per la direzione nazionale ci troviamo in 200 al Nazareno, se metti 200 persone in fila a parlare non si riesce a costruire un dibattito. Manca la dimensione assembleare. A livello amministrativo i Gd funzionano molto bene, per esempio a Milano abbiamo un Gd praticamente in ogni consiglio di zona. Ma a livello nazionale funziona molto male: sono tante teste senza nulla che le colleghi.”
È facile parlare di snellire, modernizzare, svecchiare, ma poi ovviamente tradurre in pratica efficacemente questi propositi è più complicato. E viene il dubbio che, in un’epoca in cui tutti i grandi partiti si svuotano delle proprie strutture novecentesche, non sia entrato in crisi il modello partitico nel suo complesso — formazioni giovanili incluse.
Daniele Valli, segretario provinciale dei Gd di Monza-Brianza dal 2014, su questo punto è fermo: “È vero che la struttura che abbiamo è eredità di un sistema partitico di decenni fa, un impianto burocratico formale molto impegnativo da sostenere. Ma una forma di partito è necessaria. Probabilmente va ripensata, ma non si può prescindere da questo aspetto: un partito deve esistere a prescindere dagli appuntamenti elettorali, è una comunità che sta insieme a prescindere dalla contingenza storica. Come questo si debba declinare, mi rendo conto, è un problema. Ma non bisogna scadere nell’errore opposto — abolire ogni forma di organizzazione.”
A margine di un’assemblea provinciale in cui i sostenitori delle varie mozioni congressuali hanno argomentato le proprie posizioni, non senza qualche scambio acceso, gli chiedo perché mai un sedicenne o un ventenne dovrebbero avvicinarsi alla politica, oggi, unendosi ai Giovani democratici. Sorride: “Innanzitutto perché siamo una comunità splendida.”
“Il ruolo che abbiamo è storicamente rilevante,” aggiunge, seriamente. “Prendersi la responsabilità di governare un processo, occuparsi delle difficoltà generazionali, dei problemi del mondo del lavoro, occupazionali, abitativi, in un momento di crisi come questo, è una sfida storica fondamentale. La politica rappresentativa è l’unico strumento che abbiamo, intesa come impegno e come passione.”
“Vedo che le giovanili nel resto d’Europa incalzano i partiti, specialmente i laburisti inglesi ora che c’è Corbyn, dovremmo farlo anche noi,” dice Andrea, riconoscendo uno dei principali limiti dell’azione politica dei giovani all’interno del Pd: il poco radicalismo. Anche se, come ci tiene a precisare Skenderi, le differenze ci sono: “I giovani si avvicinano ai Gd perché vedono la possibilità di affrontare tematiche in maniera più radicale che nel Partito Democratico. Parlo per esempio di legalizzazione delle droghe leggere, temi legati all’eutanasia e al fine vita — c’è un dibattito che dipende anche dalle generazioni più giovani, che sono certamente più aperte.”
“La giovanile deve avere un ruolo di avanguardia — che non vuol dire di frangia, anzi, è l’opposto. Non dobbiamo essere una corporazione all’interno del partito, ma una fucina di elaborazione avanguardistica, un pungolo, se così si può dire,” sintetizza Daniele. “La nostra generazione può essere in grado di proporre soluzioni che l’attuale classe dirigente, anche del Pd, non è in grado di proporre.”
E, dopo lo scoglio delle primarie di domenica, tutto questo torna a tradursi nell’attività quotidiana dei circoli e dei gazebo, lontana dalle cronache nazionali. A Milano come a Monza, la tematica al centro dell’attenzione è quella del lavoro, con iniziative di inchiesta e di formazione sulla situazione attuale del mercato occupazionale — specialmente giovanile.
Forse c’è bisogno anche di un rinnovamento nell’estetica, così apparentemente vecchia rispetto all’età dei militanti? “Forse sì,” concede Daniele. “Ma l’estetica non è mai soltanto immagine, è anche contenuto. Cambiare immagine significa anche fare un’operazione sul contenuto, e quindi bisogna decidere prima quale contenuto. Noi delle idee ce le abbiamo.”
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