L’Italia ha intensificato gli investimenti in Somalia negli ultimi anni, con fondi diretti a servizi di sicurezza, iniziative commerciali e aiuti umanitari. Tra questi c’è Radio Muqdisho: un’iniziativa culturale che segna il ritorno di un colonialismo strategico che vuole la Somalia un paese stabile per i fini occidentali
“Amici ascoltatori, buon pomeriggio”: è strano sentire questa frase all’inizio di un programma radiofonico su Radio Muqdisho, la stazione radio del governo somalo. Ogni giorno, alle 14:30 ora locale, gli ascoltatori somali vengono informati degli eventi internazionali in un italiano formale, ma un po’ esitante, animato da un marcato accento somalo. Dopo aver dimenticato la sua lingua coloniale per oltre 30 anni, il 1 gennaio 2022 Radio Muqdisho ha iniziato di nuovo a parlare italiano.
Dando un’occhiata al territorio somalo, diviso tra diversi clan, ancora segnato dai retaggi della guerra civile e minacciato dalla presenza di Al-Shabaab, non si può non interrogarsi sui motivi della fragilità del paese. Inoltre, c’è qualcosa di stridente nel sentire una radio somala parlare in italiano: perché l’Italia, insieme a molti altri paesi occidentali, investe in questa realtà confusa, che vive su un terreno arido?
Da radio coloniale a radio indipendente
In quanto emittente ufficiale dello stato somalo, la storia di Radio Muqdisho scorre parallela a quella della Somalia. Fondata nel 1951, quando il Somaliland italiano era appena diventato un territorio fiduciario delle Nazioni unite, inizia a trasmettere programmi in italiano e in somalo.
In seguito alla fusione con la Somalia inglese, e la risultante indipendenza della regione nel 1960, la radio — dopo le guerre in Kenya e in Etiopia— si concentra su canzoni e poesie di stampo nazionalista. Quando il socialismo di Barre prende piede nel 1969, la voce di Radio Muqdisho si sposta sul tono rivoluzionario ed anticolonialista; e mentre l’uso dell’italiano inizia a decrescere nel paese, il somalo diventa la lingua principale sui programmi radiofonici, fino a diventare la lingua nazionale nel 1972. Dopo due decenni di grande successo, durante i quali vengono usati anche arabo, amarico, oromo e swahili, la radio chiude nel 1991, alla fine della dittatura di Barre e all’inizio della Guerra Civile tra i diversi clan. Nel 2000, viene formato un governo federale di transizione, ed è sua l’iniziativa di riaprire la Radio, che riprende a trasmettere in somalo, arabo — le lingue ufficiali del paese — e in inglese.
L’italiano, insieme al passato coloniale al quale è legato, sembra venire dimenticato durante i decenni turbolenti vissuti dal paese dopo la sua indipendenza. Nonostante ciò, l’Italia ha sempre tentato di mantenere la Somalia sotto la sua influenza; negli ultimi anni, ha intensificato gli aiuti finanziari, ad esempio donando, nel 2021, oltre due milioni di dollari al PSDP somalo (Productive Sector Development Programme) —con l’obiettivo di ristabilire la sua presenza culturale, finanziando corsi di italiano all’Università Nazionale Somala (fondata nel 1954 sotto il protettorato di Roma) e rendendo possibile il ritorno dell’italiano su Radio Muqdisho.
Ora radio governativa
Indipendentemente dalla difficile situazione politica, Radio Muqdisho è ora in mano al governo del presidente Hassan Sheikh Mohamud, eletto nel maggio 2022. L’obiettivo del governo somalo è di riunificare i diversi clan che si scontrano ancora nel paese, per creare uno stato federale su modello occidentale, che possa cominciare a svilupparsi per ottenere la pace e l’indipendenza economica.
Di fatto, dopo l’indipendenza del 1960, il paese è stato tormentato da un alternarsi di dittature ed instabilità politica, e si affida ancora per la maggior parte ad aiuti esterni. È, in sintesi, uno “stato fallito”, guidato da un governo estremamente fragile, teatro di una guerra combattuta tra i suoi stessi abitanti ed alcuni gruppi terroristici.
Il concetto di “stato fallito” non è raro sul continente africano, e un importante fattore di instabilità è dovuto alla divisione stessa degli stati. Nel 1884, la Conferenza di Berlino divise l’Africa in “stati” territoriali, che non coincidevano con la diversità socio-culturale del continente —dove l’idea europea di stato-nazione non poteva avere un grande significato— ma solo con gli interessi dei colonizzatori. Così, gli ancora porosi confini della Somalia vennero tracciati dalle dominazioni egiziana, francese, inglese, ed infine italiana. Come la maggior parte degli stati africani, l’anatomia politica somala venne disegnata da estranei, che non si preoccuparono troppo della realtà politica locale; insieme alle etnie Dir e Tunni, quella Somala rappresenta la grande maggioranza dell’attuale popolazione, che è ancora divisa in vari clan.
Durante la tentata unificazione socialista di Barre, che cercò di soffocare l’originale struttura politica del paese, le tensioni tra i clan esplosero, portando alla guerra civile che continua da oltre 30 anni; in ogni caso, bisogna ricordare che l’idea di unificare diversi gruppi etnici sotto un unico stato è stata originariamente europea. Ad oggi, non si è ancora riusciti a rendere la Somalia uno stato-nazione strutturalmente sicuro, culturalmente unificato, ed economicamente in via di sviluppo. La struttura federale è stata imposta sulla regione: il popolo somalo si ritrova dunque a dover fare un compromesso che non è suo dall’inizio.
Somalia: un porto sicuro nel caos del Corno d’Africa
L’idea della Somalia come stato-nazione ‘sviluppato’ e unificato ha dunque avuto difficoltà ad aderire al territorio somalo. Nonostante ciò, molti paesi occidentali continuano ad aiutare finanziariamente il governo somalo verso un’unificazione politica che permetterebbe scambi commerciali, ed eventualmente l’utilizzo delle risorse somale. Mantenere la propria autorità sulla regione vorrebbe dire mantenere —e rafforzare— una relazione di dipendenza con uno Stato la cui forma è originariamente europea. ù
Nonostante la sua aridità, il terreno somalo ha infatti una posizione strategica sul Corno d’Africa, proprio in mezzo all’Oceano Indiano e al Golfo di Aden. Dopo lo scoppio della Guerra del Tigray nel 2020, e il secondo colpo di stato militare in Sudan, evitare conflitti nella regione è diventato molto importante per i paesi occidentali, che mirano anche a sradicare la presenza di Al Shabaab. La stabilità politica somala garantirebbe un accesso sicuro ai suoi porti, collocati in posizioni strategiche—e, inoltre, ai suoi giacimenti petroliferi inesplorati, che ora riposano sotto un terreno sconvolto dalla guerra, reso inaccessibile dall’assenza di infrastrutture e di uno Stato con cui stringere accordi commerciali.
Cultura, colonizzazione e obiettivi strategici di Roma
Agli aiuti finanziari, che sono aumentati da Roma nell’ultimo anno, l’Italia tenta di aggiungere una presenza culturale. L’ex-colonizzatore spera di accompagnare la Somalia verso l’unificazione, anche contribuendo alla formazione militare delle forze governative: stabilire un’influenza culturale vorrebbe dire garantire una certa simpatia da parte della popolazione somala, e dunque la base per un’alleanza con l’Italia.
Gli ascoltatori somali della radio nazionale sono pro-unificazione, e gli studenti dell’università formeranno la futura classe dirigente; l’Italia nutre molti interessi nel mantenerli dalla sua parte. Sentire parlare in italiano su una radio somala non è strano solo perché la lingua è stata dimenticata nel paese; in Italia, il colonialismo è sminuito (in effetti, appare piuttosto irrilevante in confronto alle conquiste francesi o spagnole), oppure dissimulato dietro alle parole ‘italiani brava gente’. Forse perché associato al fascismo, forse perché è più facile dimenticare che riparare, forse perché non ha avuto molto ‘successo’, il colonialismo italiano sembra esistere in uno spazio di tempo grigio, quasi inesistente. Nel programma di storia del liceo, il tema viene appena sfiorato, raramente si legge della Somalia sui giornali italiani. Nonostante ciò, l’Italia sta riaffermando la sua presenza coloniale, con anzi più intensità negli ultimi anni.
L’obbiettivo dei paesi occidentali è quindi di rendere la Somalia abbastanza forte da stringere accordi commerciali e politici, ma lasciando comunque che resti nella loro ombra, incapace di muoversi da sola, dipendente dai suoi ex-colonizzatori. Questa storia viene ripetuta nella maggior parte dei paesi africani, e non solo. L’idea stessa di ‘sviluppo’ viene rimessa in questione, quando ci si rende conto che l’ultimo stadio di un paese sviluppato indica uno stato-nazione occidentale — culturalmente unificato, guidato da determinate strutture legislative e politiche, economicamente stabile, con la sua propria posizione attiva nelle dinamiche globali.
Eppure, il caso della Somalia è esemplare per dimostrare che un cambiamento strutturale non è raggiungibile solo attraverso tamponamenti finanziari ed assistenza umanitaria, e non renderà il paese capace di stare in piedi da solo; al contrario, attraverso questi aiuti la relazione di dipendenza non fa che rafforzarsi esponenzialmente, e il paese continuerà nel futuro a rimanere nell’orbita dei suoi colonizzatori. Da una prospettiva occidentale, la Somalia è un paese ‘sottosviluppato’ o ‘in via di sviluppo’ e ha dunque bisogno di essere modernizzato, di venire sincronizzato allo specifico ritmo del capitalismo e della globalizzazione.
Colonizzando queste regioni del mondo, l’Europa non ha solo creato relazioni di dipendenza con i paesi colonizzati, ma ha anche spesso causato notevoli danni strutturali, in quanto il quadro europeo ha spesso incontrato molte difficoltà sul territorio. La stabilità politica in Somalia non è ancora stata raggiunta; nell’immaginare possibili soluzioni, la sua originale realtà sociale sembra rimanere nascosta dietro alle ambizioni geo-politiche occidentali — che parlano in un italiano formale, ma un po’esitante, animato da un marcato accento somalo.
foto di copertina AMISOM Public Information (Dominio pubblico)
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