La Corte suprema americana ci costringe a difendere un diritto che sembrava acquisito. Negare alle donne l’autodeterminazione del proprio corpo è un fatto politico, “un veto globale all’autonomia della donna”
L’aborto esiste da sempre. O meglio, una qualche forma di controllo sulla natalità — praticata nelle forme dell’aborto o addirittura dell’infanticidio oltre che della contraccezione — sono pressoché sempre esistite. Si controllano le gravidanze per controllare le vite; le donne l’hanno sempre fatto, come disse bene Oriana Fallaci in un’intervista ad “A Z, un fatto come e perché” del 1976: “Lo abbiamo fatto per millenni, abbiamo sfidato per millenni le vostre prediche, il vostro inferno, le vostre galere: le sfideremo ancora.”
Si dice spesso che la limitazione delle possibilità di abortire non sia davvero una questione di amore per la vita, ed è vero. Si dice anche: se a chi vuole limitare gli aborti interessassero davvero i bambini e le famiglie, allora ci sarebbero sussidi statali e asili gratuiti, e negli Stati Uniti non si potrebbe comprare un fucile al supermercato. Le posizioni contro l’aborto infatti non sono posizioni a favore della vita, non di una esistenza piena, gioiosa, ricca e vitale che immaginiamo quando pronunciamo la parola “vita”. Si possono considerare, al massimo, posizioni ottuse di sostegno a un bruto incremento del tasso di natalità, per quanto tutto ciò che è detto prima resti vero: i sussidi e la sanità e i congedi ai padri e tutto il resto. D’altro canto, le misure di welfare non sono risolutive, e questo tipo di argomento piuttosto sposta la questione lasciandola fuori fuoco. Nessun tipo di sussidio è sufficiente per costringere chi non vuole un figlio a portare avanti una gravidanza, a partorire, a essere madre, nemmeno con la sanità pubblica e con cento giorni di congedo parentale — lo stato assistenziale aiuta chi vuole fare un figlio, e chi non vuole una gravidanza e un figlio la aiutano invece i ginecologi che praticano gli aborti.
La sentenza della Corte suprema statunitense ci sembra barbarica e retrograda, e lo è: ma non dobbiamo dimenticare che anche in Italia il diritto all’aborto è gravemente compromesso da un forte conservatorismo e dall’obiezione di coscienza, che in molte aree del paese rende molto difficile godere di questo diritto. Il 69% dei ginecologi italiani, nel 2021, era obiettore di coscienza. In cinque regioni e nella provincia autonoma di Bolzano, questa percentuale di ginecologi che si rifiutano di praticare Ivg arriva fino all’80%.
Ripensando alla straordinaria sentenza della Corte Suprema USA ancora mi si riempie il cuore di gioia.
Gioia per i bambini che si salveranno dalla morte. Leggi il post completo: https://t.co/Pf6EmS9xLq pic.twitter.com/8ZsGD0sQZh— Simone Pillon (@SimoPillon) June 25, 2022
La questione dell’interruzione volontaria di gravidanza appare complessa perché ha a che fare con lo spazio ambiguo in cui decidiamo cosa è una vita umana e che cosa invece non lo è. Il problema viene risolto in maniera piuttosto arbitraria dal punto di vista giuridico — in Italia l’aborto per ragioni non mediche è consentito fino alla dodicesima settimana di gravidanza — e resta personale sul piano morale. Si può considerare che un embrione o un feto siano vivi ma non siano persone, ma non è difficile sostenere anche la linea argomentativa opposta, che per alcuni è più intuitiva. Questa è una posizione recente e cattolica: dal momento del concepimento questa vita è una vita umana in potenza, e l’aborto corrisponde all’omicidio di un essere umano — rispetto al quale nella maggior parte dei casi è facile convenire che “non si fa”. Per San Paolo, chi pratica un aborto è un assassino di una creatura di Dio. Nel Talmud, come nella gran parte dei testi religiosi e giuridici pre cristiani, si parla del feto come di una parte della madre, e solo se causa la morte di quest’ultima per l’aborto viene prevista una punizione.
La filosofa americana Judith J. Thompson fa uso di un esperimento mentale sulla legittimità dell’aborto: anche se il feto nel grembo fosse un essere umano in senso pieno fin dal primo secondo che segue al concepimento, la scelta di portare avanti una gravidanza non potrebbe mai essere considerata moralmente obbligatoria. Se la specificità della gravidanza è la coesistenza di due esseri viventi, non si può dibattere sulla moralità della sua interruzione volontaria dimenticando la condizione di dipendenza biologica e di subalternità che la vita del feto ha rispetto alla vita della madre. Portare avanti una gravidanza non voluta corrisponde a tenere in vita con il proprio corpo — un corpo per il quale inoltre la gravidanza e il parto sono eventi estremamente rischiosi e traumatici — un’altra persona: sarebbe come, immagina Thompson, costringere qualcuno a prestare per nove mesi i propri reni per la dialisi di un “grande violinista”. Acconsentire per salvare la vita al violinista sarebbe un atto estremamente gentile e altruista, ma non è un obbligo morale. Il diritto a restare in vita si scontra con il diritto fondamentale di ogni soggetto, che è quello di poter gestire in maniera del tutto autonoma il proprio corpo. Questo principio è lo stesso per cui non esistono leggi che rendono obbligatoria la donazione di organi, nemmeno dopo la morte: a queste condizioni, un cadavere ha più diritti di una donna viva.
A conti fatti, la questione dell’aborto è un problema morale sul piano privato, ma diventa un problema politico su quello collettivo. La negazione del diritto fondamentale di decidere del proprio corpo è un fatto politico che mina l’autonomia e l’indipendenza delle donne senza tutelarne i figli, e allo stesso tempo senza che la stessa condanna alla genitorialità colpisca nella stessa misura gli uomini, per ragioni fisiologiche. Sylvia Plath ha descritto la minaccia della gravidanza come una spada di Damocle sopra le nostre teste, pronta a farci rigare dritto. Una potenziale gravidanza ha un peso, nelle vite delle donne e degli uomini, vertiginosamente asimmetrico, come può sapere ogni donna che sia andata a letto con un uomo almeno una volta nella sua vita. Sputiamo su Hegel è un testo furioso e in stato di grazia, del quale alcune dichiarazioni andrebbero mandate a memoria come le preghiere, e lo dice nel modo più efficace: “La negazione della libertà d’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della donna.”
in copertina CC BY-NC-SA 2.0 Adam Fagen
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