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in copertina, un BTR-80 russo con una bandiera sovietica. Foto via Telegram / istorijaoruzija

Dal discorso con cui Putin ha dichiarato guerra alla contesa su chi è nazista o meno: come la propaganda e la comunicazione di Mosca e Kyiv hanno cooptato simboli e ideologie del XX secolo

La dimensione propagandistico-comunicativa del conflitto tra Russia e Ucraina è stata costruita fin dal principio — anzi, fin da prima il suo principio — sull’uso politico del XX secolo, in forme diverse tra loro (un discorso, un meme, uno slogan, la costruzione di un monumento o la sua distruzione) e articolandosi su più tematiche distinte.

Partendo da un inizio cronologicamente sensato, in un’analisi dei momenti che restituiscono per primi la trasformazione di Putin e Zelenskyj da presidenti-politici a presidenti-guerrieri (il messaggio alla nazione di Putin del 21 febbraio e quello di Zelenskyj del 24 — il primo in maglietta verde!) la prima dimensione che i due richiamano è proprio quella del XX secolo. Come nota lo storico Leo Goretti, Putin si sofferma per un quarto del suo discorso su di un “erratic and convoluted” excursus sulla storia russa e sovietica del secolo scorso con il fine di mettere in discussione l’idea che si celava dietro il perseguimenti leniniano di una comunità nazionale ucraina con identità etno-culturali specifiche. È questa politica, per Putin, ad aver messo per prima in discussione “l’unità storica dei russi e degli ucraini” (riprendendo il titolo di un saggio scritto da Putin nel luglio 2021). Zelenskyj è legittimamente più sbrigativo, ma nei primi secondi del suo primo messaggio da presidente di una nazione invasa si rifà a un’angoscia tipicamente novecentesca: “Quello che sentiamo oggi non sono rumori di missili, spari o aeroplani: è il rumore del calare di una nuova cortina di ferro.”

L’uso politico del passato sovietico, come si nota dai discorsi dei due presidenti, è dirimente. A Putin si deve riconoscere un già sperimentato uso propagandistico dell’esperienza sovietica, della quale ora si annientano le istanze marxiste-leniniste e si protegge ed esalta il ruolo di potenza mondiale. Questo approccio alla simbologia e alla retorica sovietica, che trova la sua massima espressione nel carro russo che batte bandiera dell’URSS, è permeato nel contesto ucraino già dal 2014 come fondamento propagandistico delle entità separatiste filo-russe, sempre generose di falci e martello e rimandi alla mitologia sovietica. Insomma, i cartelloni visti a Doneck nel febbraio 2022, con l’Armata Rossa sovietica e l’esercito russo in due foto speculari con funzione di continuità e la scritta “abbiamo vinto nel 1943, vinceremo oggi,” fanno parte di un apparato propagandistico che già nel 2014 arricchiva documentari di VICE News con frasi vetero sovietiche diventate presto meme: “Cosa avrebbe fatto Vladimir Ilič [Lenin] in questa situazione?,” si domandano dei separatisti della Repubblica Popolare di Doneck, con l’inquadratura che si sofferma su di uno stendardo raffigurante il leader bolscevico. “Il buon Vladimir Ilič avrebbe sparato a tutti qui,” risponde uno. 

Proprio attorno a Lenin si sviluppa uno degli aspetti più interessanti dell’uso politico dell’eredità sovietica nello spazio del conflitto russo-ucraino: il ruolo dei monumenti. Nonostante si strutturi su una damnatio memoriae dell’Unione Sovietica, e non su quell’esaltazione simil folkloristica vista nei cartelloni di Doneck, anche l’iconoclastia ucraina segue schemi temporali simili alla propaganda russa riproponendo dinamiche che avevano visto l’affermazione dei loro caratteri di massa nel 2014. La distruzione di fine aprile dell’imponente statua rappresentante l’amicizia tra il popolo russo e ucraino a Kiev, formata da due operai che sorreggono il simbolo di un’onorificenza sovietica di spirito internazionalista, non è altro che la ripresa di quel processo di decomunistizzazione e trasformazione degli spazi pubblici post-sovietici chiamato Leninopad (ovvero la caduta di Lenin) che, pur nascendo negli anni ‘90, in particolare dal 2014 abbatterà migliaia di monumenti sovietici con un’attenzione particolare alla figura di Lenin, nella quale la storica Antonella Salomoni nota “il punto di aggressione più evidente e frequente.”

A questi episodi ha fatto riferimento anche Putin nel discorso del 21 febbraio, rivolgendosi prima al popolo ucraino (“Volete la decomunistizzazione? Molto bene”) per poi minacciare l’esistenza dell’Ucraina come stato indipendente, riprendendo la sua personale interpretazione dell’identità ucraina come invenzione leniniana (“Siamo pronti a dimostrarvi cosa significherebbe una decomunistizzazione per l’Ucraina”). È in questo complicato e sconclusionato meccanismo di appropriazione-repulsione del passato sovietico che si cristallizzano le risposte russe al Leninopad, come le statue di Lenin reinstallate nelle varie città conquistate dall’esercito russo (ad esempio a Nova Kachovka e Heničesk) o quella a Ulan-Ude addobbata con la Z simbolo dell’invasione. Di minor rilievo rispetto a Lenin ma curioso anche l’utilizzo della figura di Stalin: se Putin si limita a coinvolgerlo nel suo discorso del 21 febbraio, Zelenskyj lo usa come arma retorica quando si rivolge a Parlamenti di nazioni che hanno sviluppato nell’anti-stalinismo un tratto della memoria collettiva nazionale (in particolare gli interventi al Parlamento finlandese e quello estone) ed un tweet dell’account @Ukraine ne celebra l’anniversario della morte (“Happy Stalin Death’s Day!”, scrive il 5 marzo).

Continuando ad appoggiarci alle costruzioni retoriche dei discorsi dei due presidenti, il discorso di Putin del 24 febbraio nel quale annuncia l’avvio di una “operazione militare speciale” è rivelatorio: anche qui il XX secolo gioca un ruolo di primo piano, in particolare l’impreparazione dell’Unione Sovietica quando la Germania hitleriana diede avvio all’Operazione Barbarossa nel giugno 1941 (“Non faremo lo stesso errore questa volta”, dice). Il fragile parallelismo storico è solo un gancio per parlare dei nazisti di oggi, quelli secondo Putin al potere in Ucraina: “I vostri nonni non hanno combattuto i nazisti per vederne altri prendere il controllo dell’Ucraina.” È così che una retorica consolidata dal 2014 ad ora arriva al proprio climax e l’invasione dell’Ucraina diventa una storia di “demilitarizzazione e denazificazione.”

L’uso politico del nazismo da parte ucraina, invece, è variegato e spesso in contrasto. Chi nazista non è, come Zelenskyj, gioca la debole carta sentimentale-familiare: anticipando di un giorno il discorso di Putin, si rivolge direttamente ai cittadini russi chiedendo “come fa un popolo che ha perso 8 milioni di vittime per mano dei nazisti a essere nazista? E come faccio io ad essere un nazista? Chiedetelo a mio nonno, fante dell’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale.” Oppure si accusa la controparte a sua volta di nazismo, nelle strade infinite della reductio ad Hitlerum: memorabile il tweet di @Ukraine, il più virale di tutto il conflitto, con Hitler che accarezza teneramente Putin integrato dalla scritta “Questo non è un meme, ma la nostra e la vostra realtà ora.” Chi nazista lo è davvero, invece, si limita a fare il nazista. Se il recupero di figure di collaborazionisti come Stepan Bandera è noto già dal 2014, con l’assassino di ebrei e civili polacchi al centro di un pericoloso processo di revisionismo storico sia a livello istituzionale che sociale, è nuova e interessante l’appropriazione di nuovi spazi nazisti: tra le novità la comparsa di toppe — indossate da russi neo-nazisti che combattono al fianco degli ucraini — che riproducono il logo della Russkaja Osvoboditel’naja Armija, le unità collaborazioniste russe che durante la Seconda guerra mondiale rispondevano alla Wehrmacht.

Essendo l’esperienza nazista inscindibile dal progetto di sterminio degli ebrei d’Europa, è chiaro come l’entrata del primo elemento nello spazio dell’uso politico della storia porti con sè anche il secondo. Per quanto riguarda l’Olocausto, però, c’è da sottolineare come questa sia una pratica con delle profondità molto più totalizzanti dell’esaltazione o la repulsione di figure o esperienze storiche: come scrive Daniele Giglioli “vera protagonista del passato è la soggettività sofferente”, e quindi – nel XX secolo europeo – l’ebreo. È in questa premessa che assume un senso profondo la rivendicazione di una discendenza ebraica (anche come risposta all’accusa di nazismo) da parte di Zelenskyj e del capo dello staff Andriy Yermak, o episodi come il tweet di  @ZelenskyyUa sulla distruzione da parte di un razzo russo del memoriale di Babyn Jar a Kiev, a ricordo del massacro di 30mila ed oltre ebrei uccisi in poche ore nel settembre 1941: “Che senso ha dire ‘mai più,’ quando una bomba cade nello stesso sito di Babyn Jar? La storia si ripete…” (concetto riportato anche negli interventi al Parlamento tedesco e israeliano). La storia degli ebrei, si intende, si ripete con gli ucraini. Due note a margine: 1) il ministro israeliano delle comunicazioni, Yoaz Hendel, ha definito il paragone con l’Olocausto “scandaloso” e 2) il giornalista israeliano Ron Ben Yishai ha scritto di come il memoriale di Babyn Jar non presenti in realtà danni; in compenso risulta danneggiato quello di Drobytsky Yar (15mila ebrei uccisi) vicino Charkiv.

Un ultimo aspetto di particolare interesse è l’uso politico del superstite, che introduce l’interessante condizione della simbologia come personificazione. A carattere di esempio prendiamo qui il commosso ricordo che Zelenskyj ha riservato a Boris Romančenko, 96enne ebreo sopravvissuto a quattro lager nazisti e deceduto nella sua casa di Charkiv sotto bombe russe (“I nuovi fascisti continuano il lavoro di Hitler,” ha commentato su Telegram il sindaco di Leopoli Andrij Sadovyj), ed il caso della 77enne russa Yelena Osipova. Verso la Osipova l’informazione e la società occidentale filo-ucraina hanno converso l’attenzione  dopo il suo arresto mentre protestava contro la guerra a San Pietroburgo, ed il fatto che l’attivista fosse una superstite dell’assedio di Leningrado è stato fondamentale nella restituzione della sua figura (anche l’Ufficio Stampa del Comune di Milano, che l’ha resa cittadina onoraria, preme su questo punto). In una costante che abbiamo imparato a conoscere in quest’analisi, anche questo non è vero: la Osipova è nata quasi un anno dopo la fine dell’assedio, e questo ovviamente niente toglie a quello che fa. È semplicemente il curioso caso della storia che si sottrae al suo uso propagandistico attraverso il trasformarsi in menzogna. Un’azione di autodifesa verso la sporcizia della guerra, ma soprattutto verso gli interessi dei guerrieri.


Alessandro Colombini è uno storico e autore di Lezione di nuoto@nuotonewsletter, una newsletter sull’esperienza umana nel Ventesimo secolo

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