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Il 12 giugno si voterà per i cinque referendum abrogativi sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. La campagna per il Sì non decolla, il fronte del No denuncia lo smantellamento della lotta alla corruzione e alla violenza di genere

I cinque referendum sulla giustizia, dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale lo scorso 16 febbraio, chiedono di annullare totalmente o parzialmente delle leggi che riguardano il sistema della giustizia. Come per tutti i referendum costituzionali si dovrà raggiungere il quorum: il 50% più uno dei cittadini aventi diritto di voto dovrà andare alle urne affinché il voto sia valido. Inizialmente, i quesiti dovevano essere sei con l’aggiunta di un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, ma questo è stato bocciato dalla Corte Costituzionale. 

I quesiti in questione coinvolgono diversi ambiti dell’organizzazione della giustizia: due riguardano il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM); uno le limitazioni delle misure cautelari; un altro discute dell’abrogazione della legge Severino sull’incandidabilità in caso di condanna e infine l’ultimo referendum coinvolge la separazione della carriera dei magistrati dalle funzioni giudicanti (giudice) a quelle requirenti (pubblico ministero) e viceversa.

Il CSM è l’organo che governa la magistratura italiana, gestendo in autonomia qualunque azione di giudici e pm, tra cui i concorsi per i ruoli nella magistratura, le procedure di spostamento, gli avanzamenti di carriera e gli aspetti disciplinari dei magistrati. Il CSM è composto da 27 membri, di cui tre di diritto (il Presidente della Repubblica che presiede il Consiglio, il Presidente della Corte di Cassazione e il procuratore generale della Corte di Cassazione). Gli altri membri sono eletti per due terzi dai magistrati — sono i “membri togati” — e per un terzo dal Parlamento — i “membri laici.” Ad oggi, se un magistrato volesse candidarsi al CSM, avrebbe bisogno di almeno 25 firme di altri magistrati e uno dei referendum del 12 giugno propone l’eliminazione di questa norma permettendo al magistrato di candidarsi liberamente, senza il supporto di altri magistrati e soprattutto delle correnti politiche interne al Consiglio. Coloro che si oppongono al referendum, però, non vedono come l’eliminazione della raccolta firme possa fermare i voti “politicizzati” nel CSM.

Il secondo referendum sul CSM riguarda la valutazione dei magistrati che viene effettuata dalla Corte di Cassazione e dai Consigli giudiziari. I magistrati vengono valutati ogni quattro anni da un consiglio disciplinare di formazione mista, composto da magistrati e membri “laici,” generalmente avvocati e professori universitari di discipline giuridiche. Attualmente, i membri laici possono contribuire all’elaborazione del giudizio sui magistrati, ma sono esclusi dalla valutazione finale del loro operato che viene effettuata dai magistrati. Il referendum propone di permettere anche ai membri laici di poter partecipare alle votazioni col fine di rendere più oggettiva la valutazione dell’operato dei magistrati. Chi si oppone al referendum, sostiene che non sia corretto affidare la valutazione dei magistrati agli avvocati che rappresentano la controparte dei giudici nei processi: il rischio è quello di avere votazioni condizionate da preconcetti e motivazioni di competitività personali. Inoltre, sottolineano gli oppositori, il giudice potrebbe essere condizionato dalla possibilità di trovarsi di fronte in un processo uno degli avvocati del consiglio disciplinare.

Un altro referendum riguarda la proposta di limitare le motivazioni dietro la custodia cautelare. La custodia cautelare è una misura preventiva applicata a un imputato a cui viene limitata la libertà durante un processo per motivazioni strettamente necessarie come il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove o la possibilità di reiterare reati gravi come delitti personali o delitti legati alla criminalità organizzata. 

In caso di vittoria del “sì,” non si potrà più applicare la custodia cautelare in carcere per i reati con pena inferiore ai di 5 anni; un limite che scende a 4 anni per la custodia cautelare che prevede gli arresti domiciliari. I favorevoli sostengono che le misure cautelari siano abusate dai giudici – un detenuto su tre nel 2021 era in custodia cautelare – che hanno potere di porre in custodia cautelare anche soggetti non pericolosi. Gli oppositori sostengono che però il quesito eliminerebbe una serie di importanti limitazioni come sottolineato dall’ex magistrato Domenico Gallo secondo cui “l’effetto sarebbe quello di precludere la possibilità di applicare non solo la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, ma anche l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge violento), il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di atti persecutori), così come non sarebbero più possibili le misure interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali (nel caso delle società finanziarie che truffano gli investitori).”

Per il fronte del “sì,” si è espresso il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori che, in un articolo pubblicato su Il Foglio, ha discusso anche del quesito sull’allentamento delle misure cautelari. Gori ha definito “infondato” il pericolo di poter lasciare a piede libero persone accusate di violenza di genere poiché il referendum non prevede alcun cambiamento per l’adozione di misure cautelari quando sussiste il “concreto e attuale pericolo che l’indagato commetta gravi delitti con l’uso di armi o altri mezzi di violenza personale” e stando a Gori, lo stesso vale anche per i reati di corruzione o di associazione a delinquere di stampo mafioso. 

Tuttavia, le leggi contro la violenza di genere in Italia non sono sufficienti a difendere le vittime e un allentamento delle già deboli misure cautelari aggraverebbe la precaria situazione: sul numero de L’Essenziale di sabato 28 maggio, Giulia Siviero ha ricordato che la violenza di genere “ha radici culturali profonde, e per questo ha come caratteristica intrinseca la reiterazione,” con recidiva nell’85% dei casi. “La violenza di genere non rappresenta un delitto contro l’ordine costituzionale, non rientra nella criminalità organizzata, l’autore non ha prove da inquinare e spesso non scappa, anzi. Nella maggior parte degli episodi, però, oltre il 95 per cento dice l’Istat, la violenza di genere viene commessa senza l’uso di armi. E quando quella violenza verrà commessa usando una ciabatta, lanciando un piatta o , come più spesso accade, a mani nude, quella ciabatta, quel piatto, quelle mani saranno considerate oppure no “un altro mezzo”? Forse sì e forse no. A quel punto, la decisione dipenderebbe solo dalla valutazione interpretativa di ogni singolo giudice.”

Un altro punto molto discusso dei referendum – e anche quello più critico – riguarda l’abolizione della legge Severino. Il decreto retroattivo, realizzato durante il governo Monti nel 2012, vieta la candidatura e l’eleggibilità per qualunque carica pubblica di qualunque soggetto condannato definitivamente a più di due anni di carcere per reati di collaborazione con criminalità organizzata o organizzazioni terroristiche; per reati di corruzione o concussione e per delitti non colposi con pene pari o superiori ai 4 anni. Il decreto Severino pone poi altri paletti tra cui la decadenza della carica pubblica in caso di condanna definitiva o la sua sospensione per un massimo di 18 mesi per condanne non definitive. 

Se vincerà il “sì,” anche i condannati per reati gravi  potranno candidarsi per cariche pubbliche, salvo indicazioni specifiche date in merito dai giudici nella condanna dell’imputato. Lo scorso marzo, il Fatto Quotidiano ha fatto notare  una vera e propria “riunione di pregiudicati” al gazebo del Riformista in sostegno dei referendum di Lega e Radicali: a sottoscrivere i referendum si sono presentati personaggi coinvolti nello scandalo di Mafia Capitale, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, ma anche l’ex M5S e oggi membro di Forza Italia accusato di corruzione, Marcello De Vito. 

I favorevoli all’abolizione del decreto Severino sostengono che la decadenza automatica di cariche pubbliche, soprattutto sindaci e amministratori locali, dopo una condanna in primo grado – quindi non definitiva – vada contro la presunzione di innocenza, mentre gli oppositori fanno notare, ovviamente, che il referendum chiede di eliminare completamente la legge e non dei singoli punti al suo interno.

Infine, l’ultimo quesito riguarda la separazione delle carriere dei magistrati dalle funzioni giudicanti (giudice) da quelle requirenti (pubblico ministero) e viceversa. La prima funzione richiede al giudice di essere imparziale nel giudizio del caso, mentre il pubblico ministero promuove l’azione penale contro l’imputato: ad oggi, un magistrato può passare da una funzione all’altra per un massimo di quattro volte con delle limitazione in questi passaggi. 

Il referendum propone di eliminare questa possibilità, imponendo al magistrato di scegliere in maniera definitiva ad inizio carriera di percorrere la strada della funzione giudicante oppure quella della funzione requirente. I sostenitori del “sì” affermano che la modifica di questa legge permetterebbe di avere una maggiore equità e indipendenza dettata da una netta divisione tra giudici e accusatori. Inoltre, si eviterebbero passaggi di funzione nel corso dello stesso processo. 

In questo caso, gli oppositori sollevano diversi punti contro l’abrogazione: prima di tutto, non è garantita una completa indipendenza per non aver intrapreso la stessa carriera e in secondo luogo, togliendo il pm dalla giurisdizione, si impedisce di favorire un arricchimento utile alla carriera. Infine, non ci sono prove di passaggi di funzione all’interno dello stesso processo.

in copertina, elaborazione foto CC-BY-SA-3.0 Sergio D’Afflitto

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