No diet day 2

La logica della dieta è una delle cause principali del nostro rapporto disfunzionale con il cibo. C’entrano gli stereotipi sul corpo, i disturbi alimentari, la grassofobia 

Oggi è il No diet day, una giornata istituita il 6 maggio del 1992 da Mary Evans Young, attivista che dopo aver sofferto di anoressia ha deciso di dare vita a una giornata il cui scopo fosse quello di sensibilizzare le persone a rifiutare la cultura della dieta, rivoluzionando il concetto di salute e promuovendo l’accettazione di tutti i corpi. 

Cercando su Google “no diet day” appaiono parecchi siti in italiano che presentano erroneamente questa giornata come un momento in cui “concedersi” quello che si vuole senza pensare alla dieta, e a “sgarrare” rispetto all’alimentazione quotidiana. Queste modalità di approccio al cibo e all’alimentazione sono parte di quella che viene chiamata “cultura della dieta,” che è proprio ciò che la giornata del 6 maggio si propone di decostruire, il che dimostra come in Italia la tematica sia ancora poco trattata, sia a livello mainstream che a livello accademico. 

La definizione di cultura della dieta è ampia: in generale è un sistema valoriale nel quale siamo immersi — soprattutto  in Occidente — che associa al grasso un ideale negativo, glorificando la perdita di peso.

All’interno di un pensiero sistemico come quello della Diet Culture, il grasso assume un valore morale e di conseguenza viene stigmatizzato, ragion per cui viene dato un valore morale al peso, alla forma fisica e al cibo che porta inevitabilmente a discorsi colpevolizzanti e restrittivi riguardo il nostro modo di alimentarci.

La pressione sociale per la magrezza e lo stigma verso il grasso – la grassofobia – hanno creato un sistema e una narrazione tossica nei confronti dell’alimentazione e del cibo, portando a pensare alla nutrizione come a un mezzo per controllare la forma fisica e il peso.

Capita tutti i giorni di parlare della nostra “dieta” — cioè del nostro modo di mangiare, commentando una eventuale variazione di peso, o di associare determinati cibi comunemente definiti grassi o “non salutari” a un senso di colpa più o meno esplicito. Spesso pensiamo di dover in qualche modo meritare il cibo, compensando l’assunzione di alcuni alimenti con una restrizione futura o con l’attività fisica. Tutti questi elementi sociali sono parte della, così definita, “cultura della dieta,” e sono dannosi perché creano problemi nella nostra gestione del rapporto con l’immagine corporea e con il cibo, dando vita a pensieri intrusivi e invalidanti che invadono la nostra vita quotidiana, impedendo a molte e molti di avere un rapporto funzionale e sano con l’alimentazione. 

Il grasso non è sempre stato stigmatizzato in Occidente, è stato anzi per molto tempo associato a un benessere economico: solo successivamente, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, quando la magrezza ha iniziato a essere un sinonimo di bellezza, il grasso è diventato sinonimo di pigrizia e mancanza di forza di volontà.

La cultura della dieta è problematica sia per la salute mentale che per quella fisica perché le persone con un corpo grasso vengono discriminate da un punto di vista estetico e culturale. Nel momento in cui si associa una morale al peso, il grasso diventa una colpa ed è dimostrato come le persone grasse subiscano bias medici: lo stigma verso il grasso è radicato in molti professionisti della salute, impedendo loro di fornire le migliori cure. 

Ogni disturbo presentato da una persona grassa viene immediatamente associato alla forma fisica: il corpo delle persone grasse parla per loro prima di ogni altro aspetto, e il primo consiglio che viene dato è quello di perdere peso.

Questo avviene nonostante sia complesso capire quanto il grasso di per sé sia un pericolo per la salute, a causa dei bias presenti anche nella ricerca scientifica a riguardo. Spesso non vengono tenuti in conto fattori sociali, economici e individuali.

Anche il concetto di normopeso è di per sé arbitrario, poiché questo si basa sul BMI — indice di massa corporea — un indice biometrico statistico, insufficiente per giudicare la salute o il percorso personale delle persone.

Il BMI non è nemmeno valido per tutti: ad esempio, atleti professionisti come Lebron James, Kevin Durant e Odell Beckham Jr. sarebbero tutti obesi, secondo questo dato. Tuttavia, nessuno si è mai preoccupato che fossero in salute; stessa cosa vale per altri sportivi che hanno forme fisiche normalmente considerate grasse e ciò dimostra come i parametri medici non siano necessariamente imparziali, e come la preoccupazione per la salute quando è legata al peso spesso abbia più a che fare con un giudizio estetico che con un reale timore per la salute degli altri.

La cultura della dieta è dunque un fattore di rischio per il benessere mentale e fisico delle persone grasse, ma non solo perché colpisce principalmente le persone che si riconoscono nello stereotipo di forma fisica legato al genere femminile, essendo più soggette alla pressione sociale alla magrezza e agli standard di bellezza imposti. 

Le donne sono anche tendenzialmente più soggette ai disturbi del comportamento alimentare, sebbene anche negli uomini i casi siano in aumento. Il costante tentativo di diminuire e regolare il peso porta a controllare eccessivamente ciò che mangiamo: più c’è controllo più diventa complesso ascoltare le necessità fisiologiche del nostro corpo. I bisogni espressi attraverso la sensazione di fame o di sazietà sono infatti in grado di darci tutti gli strumenti per alimentarci correttamente. Se la dieta è normalmente considerata come un modo per stare “in salute” in realtà spesso è esattamente il contrario. 

Gli esperti e le attiviste sostengono come le diete, intese come tutti i programmi finalizzati a controllare il peso e l’alimentazione, non funzionino. Anche nei casi in cui ci sia una effettiva perdita di peso, la maggior parte delle persone riprende i chili persi entro cinque anni. Questo dipende da numerosi fattori sociali, ambientali e fisici.

Innanzitutto c’è un peso naturale al quale il nostro corpo tende più volentieri e questa non è una scelta o una condizione dipendente dai singoli individui. Alla base delle differenze di peso c’è sempre la genetica, ma anche condizioni ambientali esterne non dipendenti dai singoli. Il modo in cui ci alimentiamo dipende poi dalle possibilità economiche, dal tempo che è a nostra disposizione per cucinare, dalla distanza che ci separa dai negozi di alimentari — è dunque anche una questione di classe. 

Anche la possibilità di fare attività fisica, anche solo una passeggiata, dipende da fattori spesso indipendenti dal nostro controllo, come il lavoro che facciamo o la città in cui abitiamo, dalle condizioni psicofisiche, dal costo delle palestre. Il cibo può assumere anche diversi significati e valori sociali in base ai gruppi e agli individui consumatori, ad esempio per una persona immigrata trovare il cibo al quale era abituata nel proprio paese di origine può essere complesso, e spesso luoghi come catene di fast food che propongono un cibo meno targhettizzato culturalmente possono fornire spazi di incontro. Basta pensare ai nonni che portano i nipoti a mangiare un gelato: l’alimento considerato “poco sano” in quel caso diventa un momento di incontro sociale. 

Sono le diete stesse a essere quindi  un fattore di rischio per la salute psicofisica delle persone; il prendere o riprendere peso non è mai colpa del singolo, però viene associato a un senso di colpa, a una mancanza di forza di volontà e innesca un senso di inadeguatezza, di bassa autostima. La cultura della dieta impone non solo una restrizione calorica, ma anche una restrizione cognitiva — caratteristica tipica anche dei disturbi alimentari — che porta all’idea di dover mangiare meno, o a controllare e limitare il consumo di alcuni alimenti considerati “ingrassanti” o “cattivi:” tuttavia, la restrizione cognitiva può portare ad avere un rapporto disfunzionale con il cibo. 

Per combattere i danni causati dalla cultura della dieta è necessario proporre un approccio diverso verso la salute e il benessere del corpo. Durante gli anni Sessanta è nato, negli Stati Uniti, l’approccio HAES, ovvero “Health at Every Size — salute ad ogni taglia — che riconosce come i cambiamenti negli standard estetici che associano la magrezza a bellezza e salute siano dannosi per le persone grasse e non solo. 

I professionisti della nutrizione che hanno un approccio HAES propongono un atteggiamento inclusivo verso tutti i corpi e tutti i pesi, rivoluzionando il concetto di salute che è un insieme di tanti fattori, mentali, esterni e personali.

Il metodo HAES, tradotto in italiano con approccio non prescrittivo, rifiuta la cultura della dieta, ed è definito “non prescrittivo” perché non fornisce linee guida o una dieta da seguire finalizzata alla perdita di peso, ma insegna ad ascoltare il proprio corpo, a fare pace con il cibo e l’immagine corporea e a mangiare in maniera intuitiva. 

L’“Intuitive eating” si basa sul principio per cui il nostro organismo fornisce già tutti gli stimoli di cui abbiamo bisogno per alimentarci correttamente, se riusciamo ad ascoltarlo. Secondo questo approccio bisogna assecondare il senso di fame o di sazietà o di voglia di un particolare alimento. 

Ciò che è controintuitivo per la teoria HAES è invece un approccio restrittivo nei confronti di ciò che mangiamo, pensare di poter mangiare un alimento “grasso” ma solo in poche quantità, per poi continuare ad averne voglia e mangiarne ancora di più in un secondo momento, creando un rapporto di colpa. La ricerca della salute a tutti i costi non appartiene all’approccio HAES, che promuove un’alternativa al paradigma della salute, nel rispetto di tutti i corpi, e l’autodeterminazione per quanto riguarda la salute.

Essere in salute è un diritto, ma non un dovere; rifiutare la cultura della dieta vuol dire anche porsi in una prospettiva anti-abilista, in cui tutti i corpi hanno il diritto di esistere, essere accettati, trovare i loro spazi a prescindere dal loro stato di salute.

È importante anche ricordare che una critica alla cultura della dieta non vuole porsi in un atteggiamento giudicante nei confronti delle persone che vogliono comunque perdere peso, i bisogni culturali sono difficili da sradicare e essere magri è ancora un privilegio. Ciò che si vuole proporre è un cambiamento culturale e non una pressione individuale all’accettazione di sé, trascurando la ancora esistente spinta sociale alla magrezza. 

in copertina: 5 cm al secondo ©️ 2007 CoMix Wave Inc

segui Giulia su Instagram

Sostieni l’informazione indipendente di the Submarine: abbonati a Hello, World! La prima settimana è gratis