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Il campo democratico che celebra il 25 aprile è diviso: ma proprio perché da anni la festa della Liberazione è in crisi, non dovrebbe essere difficile capire che quando si festeggia la fine di una guerra si celebra la pace, e non la guerra che si era conclusa

Buona festa della Liberazione! Se nelle scorse settimane avete seguito le lunghe discussioni che hanno preceduto il 25 aprile, probabilmente arrivate alle manifestazioni di oggi stanchi: dagli attacchi all’ANPI ai quotidiani che portano le bandiere della NATO in edicola, in questi giorni si è usata ripetutamente la guerra partigiana come strumento per attaccare le aree pacifiste di ampi settori della sinistra italiana, accusate, sostanzialmente, di usare due pesi e due misure — con l’accusa sotterranea di essere legati a Putin per una specie di nostalgismo per l’URSS. 

Anche se sono state giornate faticose, che il 25 aprile sia una festa in crisi non è una novità di quest’anno. Non serviva che la guerra “tornasse in Europa” per sottolineare i dissapori interni che da anni frammentano le celebrazioni — anzi, ormai da anni la parte più liberale del campo democratico vuole portare il blu in manifestazione, parla di “patrioti d’Europa” e tenta di ricontestualizzare in senso contemporaneo la celebrazione della sconfitta del nazifascismo in Italia.

D’altronde, l’Italia è uscita dalla Seconda guerra mondiale in modo diverso dalla Germania: non c’è stata una Norimberga, perché gli Alleati hanno riconosciuto la legittimità della monarchia e del governo Badoglio — e la legalità della Resistenza. Questo ha permesso al paese di “salvare la faccia” sul piano internazionale ma, a livello interno, si è tradotto in una “defascistizzazione” morbida della società, senza la profonda analisi e condanna del fascismo  che invece ha permesso la nascita delle due Germanie novecentesche — e che oggi costituisce la pietra angolare dell’identità internazionale della Germania contemporanea. In Italia si è sperato che un percorso graduale portasse ad una altrettanto funzionante democrazia liberale. Questa gradualità, tuttavia, ha permesso la diffusione di innumerevoli narrazioni parallele della guerra e della Resistenza partigiana, influenzate sia dalla propria colorazione politica che dalla storia familiare di ogni casa italiana. Il risultato ultimo è noto: anche tra chi oggi non si identifica come fascista è normale che sopravviva l’idea dei partigiani inutilmente violenti e del fascismo come un regime meno peggiore di come lo si racconta.

Che i partigiani siano stati responsabili di azioni di guerriglia anche temerarie non è una forzatura della destra: la guerra implica morte e morti, e si tratta di una responsabilità drammatica. La guerra dei partigiani, tuttavia, è stata eroica, perché non ideologicamente ma solo strumentalmente violenta. La guerra partigiana era sì contro un invasore, ma è stata anche — forse soprattutto, considerato come viene vissuta oggi — una guerra fratricida, che ha visto nel nord e centro Italia italiani contro italiani, per decidere se si voleva o meno un governo nazifascista. 

Questa “conversazione di guerra” non era limitata ovviamente all’Italia, ma ha coinvolto tutto l’Europa, e i suoi strascichi si sentono ancora nel discorso politico italiano e internazionale. La ricerca del leaderismo — l’elezione del presidente senza partito in Francia, la battaglia di tecnicismo politico per il presidenzialismo in Italia — non è altro che un residuale, un compromesso e un’alternativa, trovate dalle democrazie liberali all’idea dell’uomo forte al comando. Durante la Seconda guerra mondiale, in tutta Europa, si combatteva soprattutto su questo: per l’unica volta nel nostro continente, si sono superate le differenze tra chi aveva preso le armi per una democrazia socialista — come molti partigiani — e chi invece le preferiva una democrazia imperfetta, liberale, ma comunque una democrazia. 

Questa differenza, che si è riusciti a superare per contrastare l’avanzata del nazifascismo in Europa, è la stessa che anima la riottosità con cui si arriva, tutti gli anni, al 25 aprile. Quest’anno ha preso forma di una sorta di “regolamento dei conti” tra i democratici che si rivedono negli Stati Uniti — e nella NATO specificamente, in quei giorni — e i propri alleati più progressisti. Il “regolamento dei conti,” però, ha preso una piega storicamente bizzarra: ovvero si chiede alla sinistra più progressista, e quindi pacifista, di abbandonare posizioni politiche per sostenere il sempre crescente investimento europeo nell’industria della guerra, necessario, ci viene detto, per armare l’Ucraina, che si sta difendendo da una guerra di invasione non dissimile da quella che hanno combattuto i nostri partigiani contro i tedeschi nazisti. 

Si tratta di una forzatura non solo storica, ma anche retorica. L’Italia viene da 77 anni di discussione politica sulla storia della Campagna d’Italia: sulle violenze dei militari Alleati, che cercavano di costringere sempre più truppe della Wehrmacht in Italia, e  sulle azioni dei partigiani, criticate ogni anno da metà arco parlamentare. Questa discussione dovrebbe portarci a una conclusione drasticamente diversa da quella belligerante di molti che oggi vogliono leggere nel 25 aprile un invito alla guerra: ovvero che la guerra è un meccanismo orribile, il cui orrore è incomprensibile. Ed è una conclusione ben illustrata proprio quando si ricorda la storia delle formazioni del Corpo Italiano di Liberazione, composto in larghissima parte da ragazze e ragazzi giovanissimi, che nonostante fossero cresciuti durante il fascismo, avevano preso le armi per cambiare il destino del proprio paese. Le loro storie, tutte eroiche, sono anche — ed è necessario sottolinearlo oggi — drammatiche. Si tratta di persone a cui è stato negato tutto: è stata strappata loro l’adolescenza e tantissimi hanno portato per tutta la vita con sé lutti e traumi. 

77 anni dopo, è facile limitarsi a raccontare le loro azioni come quelle di personaggi drammatici, perché gran parte della popolazione le conosce attraverso pagine di romanzi o ricostruzioni storiche televisive. Ma la loro memoria è ancora qui: la responsabilità di chi oggi vive nella repubblica che da loro abbiamo ereditato deve essere quella di impedire che persone giovanissime siano costrette a imbracciare le armi per proteggere i propri concittadini e costruire un futuro diverso, come tutti gli uomini dai 18 anni in su che non possono lasciare l’Ucraina oggi.

Per dirlo in un altro modo: la celebrazione della fine di una guerra — in Italia la guerra sarebbe finita pochi giorni dopo, il 2 maggio, con la resa di Caserta — non può essere una celebrazione della guerra stessa, ma solo essere una celebrazione della pace. Fare altrimenti vuol dire non solo mancare di rispetto alle tante persone che hanno sacrificato la propria vita, o anche solo la propria giovinezza, per costruire la pace, ma anche accettare, placidamente, parte degli ideali che proprio la Seconda guerra mondiale avrebbe dovuto sconfiggere. 

Prima scrivevo che la guerra partigiana era strumentalmente violenta — perché una guerra non può non esserlo — ma non lo era ideologicamente: questa è la grande differenza che separa i crimini di guerra fortemente voluti da Albert Kesselring e compiuti massicciamente anche dai miliziani fascisti della Repubblica Sociale Italiana, le azioni violente degli Alleati, e le operazioni di guerriglia dei partigiani. La caratteristica fondante del pensiero nazifascista, e di quello conservatore, è il culto della morte, mentre i partigiani, e sì, anche gli Alleati, combattevano proprio quella ideologia. Questa differenza è quella che separa nettamente e in modo incontrovertible le violenze sistematiche compiute dai nazisti durante la loro lenta ritirata dall’Italia, tra stragi e stupri, e le operazioni anche più avventuristiche delle sigle partigiane, come l’attentato di via Rasella a Roma, che causò poi la rappresaglia dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, ma che la storia e il diritto internazionale hanno riconosciuto come un atto di guerra legittimo.

Strumentalizzare la lotta partigiana per fare retorica belligerante, insomma, è rivelare di essere vittima dello stesso schema mentale, che vede nella vita dei soldati e dei nostri partigiani una risorsa spendibile per  realizzare i propri piani. È, insomma, ragionare da generali, che hanno una caratteristica largamente comune, che combattano da una parte o dall’altra: quella di sopravvivere ai propri sottoposti. È anche, in realtà, la posizione più pigra e intellettualmente meno efficace — e infatti arriva da poltrone che sono molto lontane dalla guerra, che la consumano febbrilmente come abbiamo fatto anni fa per la guerra in Iraq. 

La richiesta di maggior assistenza militare da parte dell’Ucraina, ovviamente, è legittima, in quanto stato che sta combattendo una invasione. Ma chi nei paesi alleati dell’Ucraina pretende che ci siano investimenti incontrollati nell’industria militare vuole un’altra cosa — ovvero che la guerra duri il più a lungo possibile, per arricchire la propria filiera delle armi e per mettere in sicurezza la stabilità dei propri governi. I paesi coinvolti e la diplomazia internazionale non sembrano avere come priorità quello che dovrebbe essere l’obiettivo comune dell’Ucraina e dei suoi alleati: salvare più vite umane possibile, difendendo l’integrità e la democrazia nel paese. La festa della Liberazione, però, deve essere occasione per ricordare il sacrificio delle partigiane e dei partigiani che hanno combattuto perché nessuno dopo di loro dovesse farlo mai più.

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In copertina, un addestramento dei partigiani del Battaglione “Francesco Covolo” delle “Fiamme Rosse” — Gruppo Brigate Settecomuni — Divisione alpina “Monte Ortigara.” Via Flickr / Linda Vignato

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