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in copertina, foto su concessione Milano Checkpoint / Davide Sala

In Italia non c’è un piano contro HIV e AIDS attuato su tutto il territorio e la responsabilità è anche delle istituzioni. Lo denuncia il dottor Massimo Galli, infettivologo ed ex primario del reparto di malattie infettive dell’Ospedale Sacco, in servizio negli anni più difficili di diffusione dell’epidemia

“Speriamo che il 1 dicembre non sia sempre un rituale di un giorno all’anno. Una piccola denuncia: il piano AIDS che fu varato nell’ottobre del 2017, cui ho dedicato un gran bel po’ di tempo della mia vita, è stato lasciato nel dimenticatoio.” L’HIV – o virus dell’immunodeficienza umana – ha segnato molto della vita professionale e umana del dottor Galli. L’ex primario del reparto di malattie infettive dell’Ospedale Sacco, in pensione da novembre 2021, ha vissuto l’epicentro dell’epidemia negli anni peggiori, dall’assenza di qualsiasi terapia fino al 1996, anno della scoperta della tripla terapia per negativizzare il virus: “È la mia vita professionale, ma mi verrebbe la classica terribile battuta ‘ho visto cose che voi umani…’”

Scuole e territorio senza piano di prevenzione

Il piano messo a punto dal Ministero della Salute, con il contributo del dottor Galli, prevedeva una serie di interventi partendo dal presupposto che le regioni si dotassero di una commissione regionale AIDS con il compito di articolare gli interventi opportuni. Un altro punto importante riguardava la prevenzione e la sensibilizzazione nelle scuole. “Il piano è stato approvato dalla conferenza Stato–Regioni, che ne ha acquisito i contenuti che dovevano essere parte dei LEA (livelli essenziali di assistenza) –ma da quel momento molto poco si è mosso,” spiega il dottor Galli, che fa riferimento al “governo del cambiamento” come principale responsabile della stagnazione: “Il governo gialloverde ha fatto pessimamente.” 

Ci sono significative differenze territoriali nella diagnosi e nel trattamento dell’HIV. L’Ospedale Sacco in Lombardia è un centro di eccellenza, ma la situazione peggiora nei centri periferici e dove la sanità è meno accessibile. Un altro fattore da tenere in considerazione è quello sociale, anche a livello internazionale, continua Galli: “In una dimensione internazionale, il problema è più grave. Per quanto riguarda l’accesso ai farmaci nei paesi più svantaggiati, ci sono elementi che continuano a sfavorire la componente più fragile della società. Persino nei paesi più poveri è più facile l’accesso alla terapia per le persone abbienti.”

Il dottor Massimo Galli nel suo studio all’Ospedale Sacco di Milano, marzo 2021. Foto: Marta Clinco

Undetectable = Untrasmittable

Si potrebbe fare di più su prevenzione, educazione sessuale e sensibilizzazione per cancellare lo stigma. La pensa così anche Daniele Calzavara, volontario di Milano Checkpoint, una delle associazioni di riferimento sul territorio che offre il servizio di test HIV gratuitoper tutti. Milano Checkpoint è tra i promotori della mostra fotografica, allestita presso i Frigoriferi milanesi, che ricostruisce le vicende umane e pubbliche che hanno segnato i 40 anni di virus, dalla sua scoperta fino agli ultimi anni, quelli della cura e delle possibilità di una nuova vita, della riduzione dello stigma. “Il problema non è solo sanitario ma sociale”, afferma l’attivista, “lo stigma costringe le persone affette da HIV nell’ombra, e non permette loro di raccontare la loro storia. Molta della discriminazione avviene in ambito sanitario, quindi sembra assurdo che ci sia ignoranza su questo tema.”

In particolare, molte persone che ignorano i progressi fatti sulle terapie e sulla prevenzione non sanno che “più del 90% delle persone con HIV sono in terapia e con carica non osservabile. Nonostante questo dato, che non dovrebbe far aver paura, ci sono ancora episodi di discriminazione.” Si tratta dell’equazione U=U – Undetectable = Untrasmittable: se il virus non è rilevabile, non è trasmissibile. Massimo Oldrini, Presidente di LILA – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS spiegava che “U=U è riferito alla sfera sessuale, Questa semplice equazione, sulla base di solidissime evidenze scientifiche, definisce a rischio zero un rapporto sessuale senza preservativo con una persona HIV+ in trattamento efficace e quindi a viremia soppressa.” 

Le diagnosi diminuiscono, ma c’è un perché

Nel 2020, sono state effettuate 1.303 nuove diagnosi di infezione da HIV, pari a 2,2 nuovi casi per 100.000 residenti. L’incidenza casi/popolazione osservata in Italia è inferiore rispetto a quella media osservata tra le nazioni dell’Unione europea. Gli ultimi dati divulgati dall’Istituto Superiore di Sanità sulle nuove diagnosi di sieropositività sono stati definiti allarmanti, perché le nuove diagnosi sono dimezzate rispetto al 2019. Il dottor Galli spiega questi dati, mitigando gli allarmismi relativi alla diminuzione delle nuove diagnosi: “È evidente che dovremmo cercare di capire cos’è successo, e per il momento non siamo in condizione di dirlo. La pandemia ha determinato una fortissima limitazione delle interazioni, dei viaggi, degli spostamenti, e una costrizione della sessualità.” Calzavara offre una prospettiva più ampia, legata anche all’avanzamento delle terapie: “Sono cinque anni che stiamo riscontrando una riduzione delle nuove diagnosi, questo è dovuto a due motivi: la terapia che aiuta a negativizzare subito i nuovi positivi e la PrEP”. La PrEP è la profilassi pre-esposizione che riduce sensibilmente il rischio di diventare sieropositivi e consiste nel prendere farmaci anti-HIV da parte di persone HIV-negative che sono a rischio di contrarre l’HIV: “Questa terapia, applicata a Londra su un gruppo di 20 mila persone, ha permesso di ridurre drasticamente le infezioni,” afferma Calzavara.

I dati a disposizione permettono di censire solo la parte visibile dei contagi, aggiunge Galli: “Non abbiamo avuto un ridimensionamento delle nuove infezioni, abbiamo avuto un ridimensionamento delle nuove diagnosi di infezione, che coprono una parte spesso minoritaria di infezioni recenti e una maggioritaria di infezioni più antiche, che possono risalire anche a parecchi anni prima. Molte delle persone che giungono a una diagnosi di HIV ci arrivano per aver già manifestato alcuni sintomi che hanno insospettito i medici curanti.” Secondo i dati dell’ISS, 1/3 delle nuove diagnosi riguarda pazienti con sintomi.

Massimo Galli racconta la crisi dell’HIV all’Ospedale Sacco 

Nel 2020, l’incidenza più elevata di nuove diagnosi HIV si è riscontrata nella fascia di età 25–29 anni. Un dato interpretabile in diverse direzioni: i giovani sono meno consapevoli? Si proteggono di meno? O, semplicemente, sono sessualmente più attivi delle altre categorie? Forse tutte le ipotesi sono valide, ma quella fascia d’età è stata tra le più colpite negli anni precedenti alla cura, e rappresenta un ricordo indelebile nella vita professionale del dottor Galli: “Ricordo in particolare una notte drammatica. Ero di guardia e ho visto morire tre pazienti: l’età media era 25 anni. Erano persone che avevamo avuto in cura per diverso tempo, con le quali avevo stabilito una relazione medico-paziente e talvolta qualcosa di più.” In questa notte drammatica, esiste anche la differenza principale tra la percezione dei medici in prima linea impegnati contro il Covid e chi ha curato per anni i pazienti con AIDS: “Quella del Covid era l’esperienza del medico di guerra che si vede arrivare dalla prima linea i malati gravissimi che non ha mai visto, come appunto avviene in aree di conflitto. L’AIDS aveva anche la carica emotiva delle persone giovani, con le quali avevi stabilito una relazione e con la quale avevi tentato di stabilire una terapia.”

Nel racconto del dottor Galli si rivelano anche similitudini con la più recente pandemia, ascrivibili al discusso momento della scelta obbligata tra attribuire precedenza a un paziente rispetto a un altro, che avrebbe avuto meno possibilità di farcela. “Dal 1991 al 1995, quando avevo responsabilità di un reparto di riferimento di malattie infettive, (non ero primario ma uno dei più anziani) avevamo il problema della scelta, di quelli che avrebbero potuto superare l’ennesima crisi. Avevamo meno letti di quelli di cui avevamo bisogno per assistere le persone. La lotta si stabiliva anche tra i medici, perché ognuno sponsorizzava la possibilità di avere il proprio paziente in cura – seguito per anni in ambulatorio e che aveva magari fatto uno o due ricoveri per altre infezioni – nella speranza di cavarlo fuori anche quella volta.”

La ricerca ha salvato milioni di vite

Spesso ci si chiede perché l’HIV non sia stato ancora debellato, ma negli anni la ricerca e la scienza hanno fatto passi avanti talmente grandi, tali da essere ottimisti riguardo all’eliminazione del virus entro il 2030, obiettivo della campagna internazionale contro HIV e AIDS, che si tiene ogni anno il 1 dicembre. L’incidenza delle nuove diagnosi HIV è in diminuzione dal 2012, con una riduzione più evidente dal 2018.

Ill lavoro per trovare una cura e negativizzare il virus dell’HIV è stato fondamentale per la cura delle malattie infettive, ma è proceduto troppo lentamente — ricordiamo le proteste di Act up Parigi e del movimento omosessuale italiano, che per anni hanno denunciato l’indolenza delle istituzioni verso l’HIV e le morti per AIDS. Il dottor Galli offre invece una prospettiva scientifica: “Nel 1981 gli antivirali funzionanti erano praticamente 0. Il primo antivirale sul mercato efficace anche su varicella zoster è stato l’Aciclovir, che è l’antesignano di farmaci utili per questo virus. In buona sostanza l’AIDS ha plasmato gran parte della ricerca per i farmaci antivirali: è stata il volano per trovare una terapia contro il citomegalovirus. Gli spin off causati da HIV anche per la ricerca della terapia sono stati fondamentali per la ricerca e lo studio delle cure di molti virus.”

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