in copertina: La notte dei morti viventi, George Romero, 1968
Lo zombie non è speciale. Lo zombie non vive in un castello, non si trasforma con la luna piena. Lo zombie è lento e ha sempre fame. Lo zombie potresti essere tu.
In collaborazione con MUBI, questo ottobre abbiamo la trasformazione dell’horror da genere cinematografico di nicchia e sovversivo a elemento innervato e diluito in quasi tutti i generi dei film contemporanei.
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Quando nel 1968 George Romero presenta al mondo La notte dei morti viventi – personale metafora di una società americana violenta e razzista – Martin Luther King è appena stato assassinato e le tensioni razziali esplodono in tutto il paese. Il film si appresta a diventare un cult, incassando più di 30 milioni di dollari e garantendo agli zombie una presenza fissa nelle produzioni degli anni a venire. Romero, che continuerà il discorso iniziato con la prima pellicola in altri due film (The dawn of the living dead e The land of the living dead), ci racconta gli zombie come un’entità collettiva, impossibile da avvicinare e osservare nei suoi singoli componenti, specchio alquanto credibile della società di massa. Difficili da contare i surrogati e gli omaggi che sono nati dall’intuizione del regista americano, dai b-movies alle pellicole d’autore passando per l’inevitabile serialità televisiva, la moltitudine di zombie è stata sfruttata sempre più spesso per affrontare paure e paranoie di un secolo, con un unico punto fermo: gli zombie vanno eliminati. Come scrive Rocco Ronchi nel suo saggio Zombie outbreak, la filosofia e i morti viventi: “Lo zombie è una creatura sulla quale ogni violenza è autorizzata. Non rappresenta una minaccia che può essere governata e ricondotta all’ordine, rappresenta invece un contagio che non può essere curato. È una minaccia assoluta che va eradicata, perché va contro l’ordine stesso del nostro mondo, il quale di fronte all’apocalisse zombie non può che collassare”.
Tra queste ripetizioni di stile e pensiero non mancano comunque voci fuori dal coro più interessate all’essere zombie che al conflitto. Facendo un passo indietro dall’affollato campo di gioco delle apocalissi – che siano esse spietate o ironiche, sanguinarie o desolanti – si scoprono infatti narrazioni che immaginano l’identità zombie elevando il ruolo di queste creature da comparsa a protagonista. Nella selezione di Halloween proposta da MUBI, Flick or treat, si trovano due ottime prove che spiazzano lo spettatore con uno sguardo empatico e partecipe nei confronti degli zombie.
Halley, diretto dal regista messicano Sebastian Hofmann, è la storia di Beto, addetto alla sicurezza in una palestra di Città del Messico. Mentre muscoli anabolizzati e ben oliati sono messi in mostra davanti allo specchio, il corpo di Beto si sta invece decomponendo. Il film, che parla per immagini più che per dialoghi, ci presenta così un corpo zombificato in conflitto con se stesso, privato della vitalità necessaria per affrontare la quotidianità, ma tenace nel rimanere avvinghiato al proprio passato e al proprio essere. Hofmann, che osserva il corpo di Beto con attenzione chirurgica, allarga la riflessione ai corpi che circondano quello del protagonista e sembra porre la domanda: è più umano il modo in cui uno zombie si prende cura del proprio corpo ormai a brandelli o come le persone intorno a lui dispongono dei propri?
È proprio nel rapporto tra Beto e la sua datrice di lavoro, Chivis, che Hofmann si affaccia su una possibile alternativa alle apocalissi. La rapida complicità tra i due ci parla di un’umanità sempre possibile, anche dove i corpi non sono del tutto presenti o del tutto vivi. Così anche nella conclusione – incorniciata da immagini documentaristiche dei ghiacciai della Groenlandia – il regista messicano si smarca dalla facile e abusata fine di uno zombie (bruciato, decapitato, fucilato, investito, e via dicendo), ma lascia spazio ad una naturale e lenta decomposizione.
Se Halley è lo sguardo sul quieto decorso della vita-post-mortem, Zombi Child (il cui titolo riprende l’origine creola del termine) di Bertrand Bonello è invece un inno alla liberazione dalla schiavitù dei corpi. Affondando nella radice comune a tutte le storie di zombie, quella haitiana, Bonello scava nel rimosso del colonialismo francese per parlare di schiavitù, appropriazione culturale ed emancipazione.
Due traiettorie parallele segnano l’arco narrativo del film. Nel primo un giovane di nome Clarvius viene ucciso e poi risvegliato dalla morte con pratiche voodoo nella Haiti degli anni Sessanta, mentre nel secondo Mélissa, una giovane studentessa di origini haitiane, si trasferisce in un collegio parigino d’élite facendo amicizia con un gruppo di ragazze. Durante lo svolgimento del film le due tracce si intersecano e si mischiano, avvicinando di nuovo il passato di Haiti al presente francese. L’orrore in Zombi Child non è, come ci si potrebbe aspettare, la zombificazione rituale, quanto la sua componente umana ovvero la schiavitù. Il film di Bonello, con un interesse particolare al dialogo tra passato e presente, fonde lo sguardo etnografico con quello cinematografico, creando un ibrido che ha il giusto equilibrio per non perdere l’attenzione dello spettatore.
Gli zombie di Zombi Child si aggirano fra le piantagioni dell’isola mentre le studentesse vivono immerse nelle grandi navate di un collegio, inconsapevoli, eccetto per la nuova arrivata, di cosa le lega a quel lenzuolo di terra oltreoceano. Bonello, che sull’importanza delle ambientazioni ha costruito la propria poetica (basti pensare al centro commerciale di Nocturama e alla casa chiusa de L’Apollonide), giustappone non a caso l’aspra vegetazione isolana ai palazzi secenteschi di Parigi, da una parte una chiara visione della storia e dei torti subiti, dall’altra un’ambiguità identitaria che annebbia e confonde. Come afferma anche il regista in un’intervista: “Dalla parte di Haiti sanno cosa fare perchè hanno un trascorso molto forte, sono molto orgogliosi di essere la prima nazione Nera ad essersi liberata. Da parte nostra, come dice il professore di storia nel film: Ok, la Francia è la rivoluzione, è la libertà, ma cosa ci abbiamo fatto? Siamo riusciti a farci qualcosa di buono? Quindi è tutto un discorso su come affrontare il proprio passato.”
Ancora una volta l’individualità dello zombie passa per una riflessione ampia sul ruolo dei corpi e della storia. Come spiega la protagonista Mélissa nel descrivere i rituali: “Il vudù è bello. È potente. Mostra che la vita e la morte sono inseparabili.” Halley e Zombi Child sono dunque la prova che la nuova ondata di estetiche horror a cui appartengono prova a smarcarsi dai dettami del genere e dalla stereotipizzazione degli zombie, raccontandoci un rapporto più umano e più profondo con i loro corpi e con le loro esistenze. Lo zombie non è più solo una “minaccia assoluta che va eradicata” ma anche la prova del passaggio del tempo e in quanto tale materia molto più viva del corpo che abita.