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E non è l’unico punto critico del Piano che è appena approdato in Parlamento: anche sul fronte dell’ambiente ci sono molte lacune, come sottolineato da Greenpeace e Fridays for Future

Ora che l’iter del Pnrr è quasi concluso, ci si può chiedere se sia valsa la pena di cambiare governo per avere un piano che, nella sostanza, presenta poche differenze rispetto a quello già elaborato dal governo Conte, e che nella forma viene gestito con lo stesso accentramento per cui il governo precedente era stato così aspramente criticato: la “governance” — un anglicismo che ieri Draghi ha deriso — non potrebbe essere più verticale, e nel capitolo dedicato all’attuazione e al monitoraggio degli interventi il ruolo del parlamento è minimo: si parla di generici “resoconti periodici.” Per questo passaggio parlamentare ridotto a pura formalità hanno protestato in sostanza soltanto Fratelli d’Italia, secondo cui “discutere un documento modificato un’ora prima della discussione, non è possibile neanche in una assemblea di condominio” e Stefano Fassina di Leu — “non chiudo gli occhi di fronte a un vulnus serio”. Dalla maggioranza, Lega inclusa, sono arrivate reazioni unanimemente soddisfatte. Perfino Sgarbi, come scrive Alessandro Trocino sul Corriere, è sembrato “rabbonito, placato, fiaccato.”

Diverse differenze con il testo su cui stava lavorando lo scorso governo, però, ci sono, e non mancano i compromessi al ribasso sui temi sociali e sul lavoro: nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una “rete universale di protezione dei lavoratori” e del “salario minimo legale,” oltre alla garanzia di una retribuzione “proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto” per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Il paragrafo, però, è sparito di netto dall’ultima versione del piano. Anche per questo, tra le voci critiche, si registrano quelle dei sindacati confederali, secondo cui il confronto con il governo è stato finora “inadeguato.” La bozza precedente sottolineava la necessità di garanzie sociali piú forti di fronte alla crisi. Affrontando la questione del salario minimo legale — per il quale per altro si parla con sempre più intensità a livello comunitario — il testo usava un linguaggio molto forte per difendere la misura, dicendo che avrebbe assicurato a tutti i lavoratori “un’esistenza libera e dignitosa.” 

Non è chiaro cosa sia successo, e chi abbia chiesto la rimozione. Difficilmente la richiesta arriva dall’Europa: lo scorso settembre, durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, von der Leyen aveva usato parole durissime a riguardo, dicendo che “Il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti e mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro.” 

La situazione è complessa, e una spiegazione potrebbe emergere dal coinvolgimento delle parti sociali — sia sindacali che datoriali – nelle fasi finali della stesura: molti, infatti, temono che l’introduzione del salario legale potrebbe indebolire la contrattazione sindacale in determinate industrie, perché alcune aziende potrebbero abbandonare le trattative, accontentandosi di essere “a norma di legge,” quando invece queste trattative spesso definiscono altre importanti tutele dei lavoratori. 

Il salario minimo legale, però, serve — prima di tutto per contrastare il problema sempre più pressante dei contratti pirata: in Italia sono numerosissimi, strutturati appositamente per pagare meno i lavoratori e riconoscere loro minori tutele. In alcuni casi, questi contratti portano a puro dumping salariale, come diceva von der Leyen: una riduzione della paga dei lavoratori che può arrivare in alcuni casi anche al 30% di quando vengono retribuiti i colleghi di filiera. Quello del salario minimo legale era una battaglia che univa i due partiti che sostenevano il governo Conte 2 — in realtà a riguardo depositate in Parlamento ci sono sia una proposta Pd che una M5s, che addirittura risale al Conte 1, ma che era stata fermata dalla Lega. Ora è sparita nel nulla.

Su un altro fronte, anche le organizzazioni ambientaliste, nonostante la parte importante della transizione ecologica all’interno del piano, non nascondono una certa insoddisfazione: secondo il WWF si tratta di un passo significativo ma non sufficiente, mentre Greenpeace parla di “mezza svolta.” Massimo Scalia, Gianni Silvestrini, Gianni Mattioli e Enzo Naso hanno scritto una lettera a Draghi per evidenziare le grosse lacune del piano su energia e ambiente. Più lapidario il giudizio di Fridays for Future, che pochi giorni fa ha detto che “il piano è lontano dal potersi definire verde”: “I cambiamenti apportati dal governo Draghi al Pnrr non solo hanno portato a delle manovre ampiamente insufficienti, ma sono di fatto peggiorativi rispetto alla bozza precedente.”

Il problema degli snodi del lavoro e dell’ambiente è due volte grave perché, anche fuori dalla retorica salvifica con cui è stato finora descritto il Pnrr, il governo si è già impegnato per anni di durissima austerità, dandosi obiettivi ancora più rigidi di quelli in cui si era già impegnato il governo Conte 2 — obiettivi, per altro, molto più tassanti di quanto l’Europa stessa ci chiedesse. La combinazione di una ripresa che già si preannuncia inferiore del previsto, di risorse mal spese, e dell’urgenza di ridurre il deficit sul PIL — nel DEF di settimana scorsa il governo si impegna a portarlo l’anno prossimo al 5,9% (!) — rischia di essere un colpo di grazia per il paese, in mano ad imprenditori avidi e politici timorosi.

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