in copertina, foto via Facebook
La riforma non solo privilegia chi ha molti titoli di studio, ma minaccia anche di allungare ulteriormente i tempi dei concorsi — facendo insomma il contrario di quello che promette
Il 2020 doveva essere l’anno dei concorsi. Una congiuntura favorevole aveva fatto coincidere il gran numero di prepensionamenti agevolati da Quota 100 con un’esigenza strutturale di nuove assunzioni. Sarebbe quindi dovuto iniziare un periodo di turnover che avrebbe portato 500 mila nuovi ingressi in 5 anni, pari al numero di dipendenti della Pubblica amministrazione che andranno in pensione nei prossimi stando alle stime della Ragioneria generale dello Stato.
Un’occasione unica per ringiovanire il settore pubblico italiano, caratterizzato da una anzianità elevata dei suoi dipendenti. Stando ai dati dell’OCSE relativi ai soli dipendenti pubblici delle amministrazioni centrali – numeri quindi indicativi ma non esaustivi – l’Italia nel 2015 era ultima per la quota di dipendenti under 35 anni: solo il 2,2% per cento del totale, rispetto a una media OCSE del 18%. Al contrario, l’Italia si posizionava al primo posto per numero di dipendenti over 55, il 45,3%, rispetto a una media OCSE che era quasi la metà, 24,3%.
Il grande avvicendamento è però slittato di almeno un anno causa emergenza Covid. Nel frattempo sono sopraggiunte delle novità: a guidare il Ministero della PA è tornato Renato Brunetta, che aveva già ricoperto quel ruolo tra il 2008 e il 2011, nel Berlusconi IV. Brunetta, si era contraddistinto in quegli anni per essersi fatto promotore di criteri meritocratici e di gestione della performance nel settore pubblico — che avevano causato grandi polemiche per via della sua retorica contro i cosiddetti dipendenti statali “fannulloni.” Tornato al ministero, Brunetta ha manifestato la volontà di sfruttare l’occasione unica del massivo turnover quinquennale di cui sopra per agevolare l’ingresso nelle amministrazioni di personale giovane e competente, da selezionare con criteri nuovi e con un’attenzione particolare al merito. A questo proposito, sono state inserite nel decreto legge omnibus n.44 del 1°aprile 2021 le nuove norme sulle procedure dei concorsi.
Il primo passo della riforma più ampia della PA che Brunetta spera di attuare grazie alle risorse del Next Generation EU è però un passo falso.
Le nuove norme sono state contestate duramente da alcuni comitati giovanili, mentre sui social impazza l’hashtag #ugualiallapartenza, per dire no alle regole introdotte per i concorsi. Inoltre, su Change.org la petizione “No ai concorsi per titoli – No alla Riforma Brunetta” ha già raggiunto più di 21 mila firme. L’oggetto della contesa è l’articolo 10 del decreto, che introduce “una fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle successive fasi concorsuali.” In pratica, vengono sostituite le classiche prove preselettive — di norma quiz a crocette di logica e altre materie — coni una preselezione in base ai titoli. Sull’HuffPost, il Ministro Brunetta ha cercato di spiegarne le dinamiche: si tratterebbe di una sorta di graduatoria a punti. “Le singole amministrazioni potranno individuare un numero massimo, più o meno ampio, di candidati, da ammettere alle prove successive,” ha scritto Brunetta. Maggiori titoli di studio garantiranno un punteggio più elevato mentre chi ha soltanto i requisiti minimi richiesti per la partecipazione al concorso, come una laurea magistrale o un semplice diploma, rischia di restare esclusi dalle graduatorie, senza poter partecipare al concorso.
I detrattori attaccano le nuove norme perché vengono ritenute discriminatorie nei confronti dei giovani e soprattutto delle persone meno abbienti, che non possono permettersi costosi master e lunghi anni di studi a spese delle proprie famiglie. “Si cerca un’iperspecializzazione. Le nuove norme privilegiano titoli di studio ulteriori, fino a master e dottorati, per accedere a concorsi per posizioni che magari oggi vengono ricoperte da persone con la terza media,” osserva Elena La Franca, aspirante funzionario nell’ambito delle relazioni internazionali e membro del “Comitato spontaneo No Riforma Concorsi PA,” a cui abbiamo chiesto un parere sulla vicenda.
Questa discrepanza non è nuova nel sistema dei concorsi italiano. Lo scorso gennaio, una sentenza del Consiglio di Stato individuava problemi di proporzionalità dei criteri selettivi per bandi in cui vengano richiesti – in assenza di una normativa che stabilisca il titolo di studio necessario – ulteriori titoli post-universitari oltre la laurea.
La nuova normativa mette a sistema questa logica di gara al rialzo delle competenze. “Brunetta batte sul fatto che ciò porterà a una PA più competente. Il problema è che qui non stiamo parlando di posizioni dirigenziali, ma di ruoli ordinari. Si tratta di una svalutazione legale dei titoli,” spiega La Franca. Il Ministro della PA difende il suo lavoro dicendo che la riforma è un tentativo di avvicinare l’Italia alle “pratiche internazionali, ad esempio quella europea di EPSO.” E in effetti l’Ufficio Europeo per la Selezione del Personale (EPSO) – visto come un esempio in Europa per i suoi criteri di selezione efficienti – prevede una procedura di selezione per i concorsi con una “prima fase della selezione” che “potrebbe basarsi solo sulle qualifiche.” Ma questa modalità può essere prevista solo per selezioni di specialisti, mentre per i concorsi ordinari bisogna svolgere una prova preselettiva che “consiste in una serie di test a scelta multipla su computer,” modalità pressoché analoga a quella Italiana, ma digitalizzata.
Un altro nodo che lascia perplessa La Franca è la discrezionalità che verrà lasciata alle PA. “Saranno le singole amministrazioni a decidere quali titoli conteggiare per accedere al concorso e quanti punti assegnare ad ogni titolo. Questa è una modalità pericolosa perché potrebbe intaccare il criterio di competenza che Brunetta dice di voler perseguire.” Come? “Soprattutto in realtà più piccole, sono già stati segnalati bandi che hanno tutta l’aria di essere stati scritti a tavolino per favorire determinate persone (i cosiddetti bandi ad personam ndr)” valorizzando determinati titoli piuttosto che altri. Il rischio è che candidati formati attraverso master di pochi mesi ad un’università telematica passino davanti ad altri che hanno svolto master o altri studi di livello che però sono formalmente meno “pesanti,” come i master non universitari, che non sono legalmente riconosciuti. Insomma, la preselezione per titoli non equivale necessariamente a favorire l’ingresso nella PA del personale migliore sul mercato.
Queste criticità sono già state riscontrate nel primo grande concorso post riforma, quello per l’assunzione di 2800 tecnici a tempo determinato per il Sud. Nel bando si legge che il massimo punteggio attribuibile comprendendo lauree e voti di laurea equivale a 1, mentre la formazione post laurea può raggiungere un massimo di tre punti: il triplo. Il conteggio è dunque senza dubbio sbilanciato verso la formazione post laurea: è previsto 1 punto per ogni master universitario di secondo livello rispetto agli 0,25 punti per ogni laurea ulteriore al titolo di studio utile per l’ammissione al concorso. Il bando per il Sud inoltre prevede una preselezione basata non solo sui controversi titoli, ma anche sull’esperienza. Attorno al ruolo dell’esperienza nell’accesso ai concorsi si è creata molta confusione, tanto che Brunetta è intervenuto chiarendo che “servizio ed esperienza, insieme ai titoli di studio, potranno soltanto concorrere alla formazione del punteggio finale,” non quindi nella fase preselettiva. È così? “La norma è scritta male e appositamente per essere ingannevole,” dice La Franca. “Leggendo l’articolo 10 sembrerebbe che a valere nella preselezione non siano solo i titolo di studio, ma anche quelli di servizio (che i dipendenti pubblici maturano durante gli anni di lavoro nella PA ndr). Il Ministero ha però smentito questa interpretazione.” Il rischio è che la confusione attorno alla norma possa lasciare troppo spazio di manovra alle singole amministrazioni.
Per rendere il tutto ancora più ambiguo, in una nota ufficiale sul sito del Ministero del 31 marzo si legge che per i concorsi a regime sarà prevista “una fase di valutazione dei titoli e, facoltativamente, dell’esperienza professionale per l’ammissione alle successive fasi concorsuali.” Non è dato insomma sapere quale interpretazione sia corretta. Ad oggi, sembra che la preselettiva si svolgerà per titoli di studio. Mentre l’esperienza pregressa concorrerà per il punteggio finale, a prove svolte. Un’altra discriminazione per i giovani, spiegano i detrattori, in quanto solo persone avanti con l’età possono aver fatto già esperienza dentro o fuori la PA — non di certo i neolaureati.
Secondo La Franca la riforma allungherà i tempi del concorso. Un paradosso, se si pensa Brunetta ha lanciato il provvedimento proprio per rendere più leggere e agili le modalità di accesso alla PA. “Se richiedi i titoli in una fase preliminare ciò significa che quei titoli li devi andare a controllare e verificare uno ad uno, per vedere se i candidati non mentono. Questo processo non farà altro che allungare i tempi,” spiega il membro del Comitato. A ciò si aggiunge che, come insegna la sentenza del Consiglio di Stato, il ricorso è dietro l’angolo. Un’immagine plastica di quello che potrebbe succedere la disegna Ruggiero Montenegro sul Foglio: “i concorsi pubblici risucchiati in un vortice di proteste e carte bollate, tra petizioni, accuse di incostituzionalità e ‘minacce’ di ricorsi.” “La macchina concorsuale si bloccherà,” aggiunge La Franca. “Abbiamo sentito già diversi avvocati. Andrà così.”
E in un battibaleno, la riforma della PA potrebbe essere messa al palo, col rischio di perdere il treno del Next Generation EU: proprio l’ottica emergenziale con cui sono state pensate le nuove norme era giustificata dall’esigenza di preparazione del settore pubblico alla gestione dei miliardi in arrivo da Bruxelles. Miliardi che ora rischiano di essere spesi da una PA ingolfata dai ricorsi e in apparenza più competente — ma in realtà più diseguale.
E dunque tutto da buttare? Non proprio. Ci sono due punti della riforma Brunetta che potrebbero andare nella direzione giusta. “Decentramento e digitalizzazione sono un primo passo per adeguarci agli standard EPSO,” spiega il membro del Comitato. “Per velocizzare i tempi, piuttosto che una preselettiva per titoli, sarebbe stato sufficiente digitalizzare i test, come è stato appunto fatto. In un giorno di prove hai fatto già tutto. È la carta che ti fa perdere tempo.” Il decreto comunque deve essere ancora convertito in legge. A livello pratico cosa può cambiare prima dell’approvazione? “Stiamo dialogando con alcuni partiti, in particolare Sinistra Italiana e Movimento 5 Stelle, per introdurre degli emendamenti. Si tratta soprattutto di evitare la preselezione per titoli, magari mantenendola in parte, ma solo per la selezione di figure altamente specializzate.”
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