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La difesa del poliziotto che ha soffocato George Floyd è che la violenza sia parte della professione della polizia. È vero: per questo il processo deve avviare un dibattito sul perché accettiamo una forza violenta professionale nelle strade delle città

Potete credere ai vostri occhi, quello è un omicidio. È un assassinio.” Sono le parole di Jerry Blackwell, il pm che ha tenuto la dichiarazione di apertura al processo di Derek Chauvin, l’agente di polizia di Minneapolis che ha ucciso George Floyd. Il processo si è aperto proprio mostrando di nuovo il video registrato a bordo della strada in cui si vede Chauvin uccidere Floyd. Blackwell ha chiesto alla giuria di “credere ai propri occhi” perché la linea della difesa è proprio l’opposta: che vedere il video non descrive la situazione nella sua interezza. “Derek Chauvin ha fatto esattamente quello per cui era stato addestrato,” ha dichiarato il suo avvocato, Eric Nelson, non commentando la violenza sistemica della polizia contro la comunità afroamericana, ma spiegando che “l’uso della forza non è attraente (sic) ma è una componente necessaria del lavoro della polizia.”

La linea della difesa, contro l’affidabilità dei video che dimostrano la violenza della polizia, ha una lunga storia: dal caso del video di George Holliday del pestaggio di Rodney King — forse il primo caso di citizen journalism della storia — a quello dell’omicidio del diciassettenne Laquan McDonald, registrato da una dash cam. In entrambi i casi è una linea di difesa che non ha funzionato, e indica una certa debolezza da parte di Chauvin. Le prove dell’accusa, infatti, non si fermano al video: c’è il risultato dell’autopsia, che conferma che la causa della morte sia stato lo strangolamento. 

In realtà, non è vero per niente che Chauvin si è comportato come è stato addestrato. Chauvin ha tenuto Floyd a terra per 9 minuti e 29 secondi, un tempo lunghissimo, in una posizione che da decenni è noto sia pericolosa. L’accusa ha sottolineato più volte nel proprio intervento che il modo in cui Floyd è stato ucciso non è assolutamente nei manuali della polizia statunitense. In realtà, se è vero che le istituzioni della polizia sono da anni attente all’argomento, la pratica è ancora pericolosamente diffusa. Ad esempio, la pratica dei choke hold è vietata a New York dagli anni Novanta, ma non per questo gli strozzamenti sono finiti, anzi: questo report del 2014, ad esempio, raccoglie 219 lamentele per strozzamenti realizzati dalla polizia della metropoli statunitense in soli dodici mesi. Tutte le volte che una persona perde la vita perché viene strozzata dalla polizia, si entra in un loop in cui si parla della necessità di “cambiare la cultura della polizia,” ma poi da questi sforzi non ne viene fuori granché. Non si può non nominare il caso di Eric Garner, morto esattamente nello stesso modo di George Floyd, a cui fecero seguito impegni e spergiuri che la polizia di New York sarebbe stata “ri–addestrata” perché episodi di tanta violenza non si ripetessero. La promessa, fatta dall’allora appena arrivato sindaco de Blasio, non potrebbe essere stata disattesa in modo più evidente che la scorsa estate, quando la polizia della città si è fatta autrice di una sistematica repressione violenta delle proteste. Sindaco, anche questa volta, era de Blasio, e anche questa volta, non è stato in grado di fare niente.

Nei prossimi giorni vedremo quando i procuratori saranno disposti a sottolineare il comportamento sistematicamente violento della polizia — che anche a Minneapolis ha una lunghissima storia di razzismo. Se l’angolo resterà sull’eccezionalità delle azioni di Chauvin, tuttavia, il rischio è lasciare all’accusa la possibilità di trasformare il processo in una storia torbida, nel tentativo di dimostrare che l’uso della forza da parte del poliziotto era giustificato: trasformando il caso in un processo a George Floyd.

La difesa, assurdamente in cattiva fede, sostiene, tra le altre cose, che gli altri agenti non abbiano fermato Chauvin prima che uccidesse Floyd perché erano distratti dalla folla che si era raccolta attorno a loro. Le persone che imploravano i poliziotti di smettere di uccidere una persona, insomma, avrebbero impedito loro di controllare che Floyd non stesse morendo. 

La criminalizzazione dei testimoni, e in modo ancora più grave, delle vittime della violenza razzista della polizia, è un’altra strategia di vecchia data: è stato il destino di Trayvon Martin, di Michael Brown, di Ahmaud Arbery, e di Eric Garner, appunto. Questa retorica è funzionale alla teoria sottesa ogni volta dagli avvocati che difendono poliziotti assassini: che uccidere sia effettivamente loro prerogativa, perché solo la violenza fatale è in grado di proteggere la società dai pericoli di cui sono lo scudo. 

Si tratta, ovviamente, di un falso sillogismo: non c’è nessun motivo per cui sia necessaria una forza violenta professionale all’interno delle città. Per questo è fondamentale che il processo per l’omicidio di George Floyd fissi che questo è quello che fa la polizia, perché serve un punto di partenza per avviare il percorso di revisione culturale che renda evidente come la minaccia di repressione non possa essere il deterrente principale per garantire la conservazione dello status quo.

Aggiornamento, 31/03/21: una versione precedente di questo articolo indicava che Rodney King fosse morto nel pestaggio del 3 marzo 1991. King al contrario è sopravvissuto alle violenze della polizia di Los Angeles.

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