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Le difficoltà di produzione di BioNTech dimostrano quello che organizzazioni per i diritti umani e paesi meno ricchi dicono da mesi: per mettere fine alla pandemia bisogna sospendere i brevetti sui vaccini, in modo da garantire che tutti possano produrne la quantità necessaria

In un’intervista rilasciata ieri allo Spiegel, Uğur Şahin, il cofondatore di BioNTech, ha criticato duramente l’Unione europea, sostanzialmente dicendo che l’ordine dei vaccini è arrivato troppo tardi. L’Ue si era impegnata a sviluppare un “portafoglio” di vaccini, sperando che più aziende sarebbero arrivate all’approvazione in tempi utili. I ritardi di AstraZeneca e Johnson & Johnson, però, si sono tradotti in un effettivo periodo di “esclusività temporanea” del vaccino di BioNTech. Şahin, che ha fondato l’azienda con la moglie Özlem Türeci, rassicura: BioNTech sta lavorando ad una nuova fabbrica a Marburgo, in Germania, dove da febbraio saranno prodotti i vaccini, e che dovrebbe garantire 250 milioni di dosi in più nella prima metà del 2021. Inoltre, sono stati siglati accordi di produzione tra BioNtech e altre cinque aziende farmaceutiche. L’intervista ha avuto comunque un grosso impatto mediatico, in Italia e all’estero, ed è stata interpretata come una “richiesta d’aiuto” da parte dell’azienda tedesca.

In attesa dell’approvazione di altri vaccini — quello di Moderna dovrebbe ricevere il via libera dall’EMA tra pochi giorni, il 6 gennaio — la scarsità di dosi comporta scelte difficili da parte delle autorità nazionali: nel Regno Unito, ad esempio, le nuove linee guida prevedono che, se non dovesse essere disponibile una seconda dose dello stesso vaccino, si possano somministrare due dosi di vaccini diverse — una decisione giudicata azzardata dagli esperti ed esplicitamente esclusa dalle linee guida adottate negli Stati Uniti, secondo cui i diversi vaccini già approvati “non sono intercambiabili.” 

È assente dal dibattito, però, quella che potrebbe essere l’unica soluzione possibile se BioNTech dovesse rivelarsi un collo di bottiglia per la distribuzione del vaccino: l’esproprio del brevetto, o la sospensione totale della proprietà intellettuale in materia di vaccini, almeno per la durata dell’emergenza sanitaria. 

Del resto lo sviluppo straordinariamente rapido dei prodotti da parte delle case farmaceutiche è stato possibile solo attraverso colossali investimenti pubblici, spesso anche non completamente trasparenti.  Pfizer e BioNTech, ad esempio, hanno ricevuto più di 350 milioni di euro in finanziamenti pubblici per sviluppare il proprio vaccino. Al netto di questi investimenti, però, le aziende non hanno intenzione di rinunciare al proprio ulteriore profitto: Moderna, ad esempio, ha ricevuto dal governo statunitense 483 milioni di dollari per il proprio vaccino, ma ha specificato a chiare lettere che non intende venderlo a costi di produzione. Un sopruso reso possibile dalla decisione dell’amministrazione Trump di ignorare la richiesta del Partito democratico, che voleva che i finanziamenti arrivassero solo a patto che le aziende si impegnassero a produrre vaccini economici, e senza meccanismi di speculazione. La flessibilità dei prezzi a dose dimostra come siano dettati più dalle dinamiche di mercato che dal costo di produzione. Questo è valido anche per aziende come AstraZeneca, che ha promesso di tenere prezzi calmierati durante la pandemia, ma il cui prezzo del vaccino varia tra i 4 e gli 8 dollari a dose in base alla disponibilità dello stato a cui sta vendendo. Moderna, che ha i prezzi più alti di tutti, vende dosi in una forbice tra i 25 e i 37 dollari. Tutti questi prezzi, inoltre, sono soggetti ai trattati commerciali vigenti.

In Europa, è stata lanciata un’Iniziativa dei Cittadini Europei per il diritto alla cura, No Profit on Pandemic, per chiedere che la proprietà intellettuale non intralci la produzione e la distribuzione dei vaccini, ma per il momento non ha ricevuto molte adesioni. Nel contesto del dibattito europeo, la loro potrebbe sembrare a prima vista una proposta “estremista.” In realtà è un argomento di cui si parla da mesi — o meglio: diverse organizzazioni e un numero sempre crescente di stati ne parla da mesi, con il risultato però di rimanere inascoltati dal blocco dei paesi più sviluppati, che finora sembrano essere stati convinti che sarebbe bastato pagare per risolvere il problema. La proposta più rilevante in questo senso è quella presentata da India e Sudafrica al WTO lo scorso ottobre e di cui sono co–sponsor cento altri paesi, tra cui il Kenya, il Mozambico e il Pakistan — gran parte con PIL medi o bassi su scala mondiale. La loro richiesta è stata criticata da molti in Occidente, secondo cui le esistenti flessibilità nel sistema della proprietà intellettuale — che richiedono obbligatoriamente ai detentori di rilasciare licenze ai paesi meno ricchi — siano sufficienti. Tuttavia, nel mondo reale, è evidente che le regole vigenti non garantiscano un accesso egualitario alle medicine. 

La proposta, nello specifico, prevede una sospensione temporanea dell’accordo TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), che protegge sette forme di proprietà intellettuale: il copyright, il marchi registrati, le indicazioni geografiche, i design industriali, i brevetti, i layout per i circuiti integrati e i segreti commerciali. In questo modo sarebbe possibile facilitare i trasferimenti di tecnologia, così che tutti i prodotti medici necessari per affrontare la pandemia — non solo i vaccini — possano essere prodotti facilmente ed economicamente in tutto il mondo. Lo scorso novembre la proposta ha ricevuto il sostegno degli esperti dell’ufficio per i Diritti umani delle Nazioni Unite — l’organizzazione mondiale ha presentato anche una soluzione alternativa, sotto forma del COVID-19 Technology Access Pool, a cui però Pfizer e BioNTech, Moderna, e AstraZeneca non stanno partecipando. 

Allora si parlava della necessità di sospendere i meccanismi disegnati unicamente per garantire il profitto alle aziende per venire incontro alle difficoltà dei paesi che stavano perdendo la corsa per il vaccino, ingolfata da ordini giganteschi da parte dei paesi più ricchi del mondo, che pur di avere la certezza di ottenere rapidamente le dosi per tutti i propri cittadini, ne hanno ordinate molte di più di quelle che servono davvero. Ora invece si inizia a delineare una situazione in cui la difficoltà di produrre vaccini in quantità sufficienti è un problema semplicemente non risolvibile per una singola azienda. Nel mandato delle Nazioni Unite si è lavorato molte volte, anche in anni recenti (2009, 2011, 2013) sul fronte complesso della proprietà intellettuale e del diritto all’accesso di medicinali. È importante sottolineare che, oltre ai brevetti, i segreti commerciali non sono “sacrosanti,” per usare le parole del professore associato della Elon University Levine.

Ora che i problemi relativi alla disponibilità del vaccino riguardano anche l’Europa, risulta evidente un’eventuale liberalizzazione delle licenze non sarebbe un vantaggio soltanto per i paesi meno ricchi. In Italia, ad esempio, il piano vaccinale sembra già gravemente pregiudicato dai ritardi del vaccino di AstraZeneca, su cui il governo italiano aveva progettato il grosso della propria campagna vaccinale: la società britannica dovrebbe fornire 16 milioni di dosi sulle 28 che attualmente sono previste e per immunizzare 13 milioni di cittadini nei prossimi 3 mesi, ma difficilmente il via libera al vaccino arriverà prima della fine di gennaio.

I piani ufficiali del governo sono già contraddittori, e si preparano a fare i conti con la realtà: nella fase 1 dovrebbe essere vaccinato circa il 5% della popolazione, ma le persone identificate come da vaccinare — cioè operatori sanitari, residenti nelle Rsa e over 80 — sono già di per sé 6,4 milioni, cioè circa il 10% della popolazione. Per la fase 2 invece l’obiettivo è di vaccinare circa il 15% della popolazione, ma le categorie indicate — le persone dai 60 ai 79 anni o con almeno una comorbidità cronica — sommate a quelle precedenti rappresentano circa il 35% della popolazione italiana. 

La pandemia ha acuito le disuguaglianze sociali su piccola scala, rendendo evidente come alcune categorie di persone abbiano avuto più mezzi per sopportare l’impatto economico della crisi e del lockdown; su media scala, evidenziando come decenni di tagli alla sanità pubblica in favore di quella privata abbiano indebolito il sistema sanitario pubblico; e su larga scala, mostrando come gli stati più ricchi non abbiano esitato ad arrogarsi un numero sproporzionato di dosi del vaccino. Scardinare la rigida politica dei brevetti farmaceutici sarebbe un passo verso la tutela dell’interesse pubblico sopra quello delle aziende e dei più abbienti, che finora, in Italia come nel resto del mondo, dalla pandemia hanno avuto solo da guadagnare.

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