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in copertina, foto Liam Daniel/Netflix

Fingere di non vedere il colore della pelle degli attori non è solo ingenuo, è dannoso: libera dalle responsabilità e ci condanna a storie ripetute all’infinito e sempre più sbiadite

“In guerra, in amore (e in tv) ogni arma è lecita.” Se avete seguito le ultime uscite di Netflix, e vivete come tutti davanti a uno schermo, avrete riconosciuto la semi-cit. Parliamo di Bridgerton, il period drama di Shonda Rhimes lanciato il giorno di Natale che in pochi giorni ha scalato le classifiche delle serie più viste in vacanza. La trama è quella di una classica opera inglese d’epoca, famiglia facoltosa, inganni di corte, costumi e location principesche. Ma qualcosa è diverso dalle aspettative, anzi, qualcuno: quasi metà del cast datato a metà dell’Ottocento non è bianco. Rhimes ha portato la racial diversity già propria dei suoi Grey’s Anatomy e Scandal dentro l’Inghilterra Regency, e piace. Evasione e integrazione, Bridgerton sembra fare sue le necessità del 2020, tra stasi da coronavirus e azione per Black Lives Matter. Il tutto, con qualche tocco di femminismo e goffaggine che molto si addicono alle produzioni che vogliono avere successo quest’anno. Una mossa popolare, quindi, ma non priva di rischi per il futuro della diversità sullo schermo e del razzismo in generale.

Bridgerton è il risultato di un “colour-blind casting”, la scelta di assumere interpreti indipendentemente dal loro aspetto, genere, etnia e orientamento sessuale. Tipico delle produzioni targate Shondaland, non è niente di nuovo per il cinema in generale: Omar Sharif come Dottor Zivago e Carl Anderson come Giuda in Jesus Christ Superstar sono due esempi storici, ma tra i più recenti compaiono anche la Hermione di Noma Dumezweni in Harry Potter and the Cursed Child e il celebre Lin-Manuel Miranda nel recente dramma Hamilton. La mossa di Netflix non sembra quindi niente di nuovo, se non un’applicazione sul piccolo schermo di una pratica per lo più teatrale (l’Amleto rappresentato dall’attrice afroirlandese Ruth Negga ne è un esempio molto apprezzato). A tutte queste produzioni è comune un mantra insidioso: la pelle non si vede.

Liam Daniel/Netflix

Questo è il punto: non è solo falso, dato che la pelle si vede e determina l’aspettativa e il tenore di vita di milioni di persone, ma è anche problematico perché cancella la storia, le esperienze e le responsabilità nei confronti delle minoranze a livello personale e istituzionale. Ma come — si sono difesi i primi produttori che hanno messo in pratica il colour-blind casting — non vedete che così lavorano più persone non bianche, ne assumiamo di più e garantiamo una maggiore rappresentazione? Questo è ciò che appare. Quello che molto spesso si vede, in realtà, è che ancora una volta ha vinto una storia bianca, con un twist nero. Non che la regina Charlotte non abbia dei tratti di origine africana, da un punto di vista storico è uno dei pochi elementi plausibili della serie: Carlotta di Meclemburgo-Strelitz sarebbe la discendente di Margarita de Castro e Souza, a sua volta erede della relazione tra il re Alfonso III del Portogallo e una delle sue amanti, Madragana, di presunte origini africane.

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Non solo Bridgerton non rispetta i rapporti etnici del tempo, ma non offre nemmeno nessuno spunto di riflessione se non che alle attrici e agli attori neri donino i costumi a balze. I libri di Julia Quinn sulla famiglia inglese, peraltro, non si occupano nemmeno lontanamente di integrazione e conflitto etnico (che invece nell’Inghilterra dell’Ottocento era presente) e si concentrano solo sul lato storico-romantico delle relazioni del tempo. I drammi inglesi, viene da ammettere, restano storie bianche. Ciò che attira il pubblico sono il denaro, la corte, la storia epico-familiare e il volgere dei tempi, come in Downton Abbey. Accusato di escludere le minoranze dalla produzione, il creatore Julian Fellowes aveva sottolineato: “Penso si debba creare qualcosa di credibile,” e rimarcato come non ci fossero molte persone nere nella Folkestone del 1900. Quando si tenta la via opposta, come in Hamilton, il problema è ancora maggiore: il dramma teatrale uscito lo scorso luglio in streaming su Disney+ ha ottenuto un successo planetario con una più alta rappresentazione etnica, certo, ma a costo di una totale alterazione della realtà che ha impedito agli sceneggiatori anche solo di accennare allo schiavismo di cui lo stesso Hamilton si era reso protagonista. Un tema non proprio secondario, soprattutto negli Stati Uniti.

E il problema non riguarda soltanto i film storici. Guardiamo la fiction: difesa strenuamente come il regno del possibile, è stata oggetto di rimaneggiamenti in senso inclusivo ed esclusivo da quando esistono il teatro e il cinema. Il film in uscita su David Copperfield, con protagonisti gli inglesi non bianchi Dev Patel e Rosalind Eleazar, non è che l’ultimo esempio di una storia immaginaria colour-blinded. Lo stesso si vede nell’adattamento di Persone Normali di Sally Rooney, che ha castato tre persone nere non presenti nel libro tutte come “cattive,” dando forma a un tossico pregiudizio inconsapevole. Più spesso ancora si è visto al contrario nella forma del whitewashing: come dimenticare la blackface di Lawrence Olivier in Otello, la non latina Carey Mulligan in Drive, una bianchissima Angelina Jolie in Wanted (nonostante il personaggio fosse stato addirittura ricalcato su Halle Berry), un non latino Tom Hardy in Batman, un non indiano Benedict Cumberbatch in Star Trek, e – caso che ha fatto molto rumore per la popolarità del manga originale – la non asiatica Scarlett Johansson come Mira in Ghost in the Shell? Questo vale anche per gli attori LGBTQIA+: perché è stato necessario assumere interpreti eterosessuali, come James Corden in The Prom e il più popolare Eric Stonestreet in Modern Family – preso in giro dal collega Ferguson come “gay for pay” – per rappresentare esperienze spiccatamente queer?

La maggiore consapevolezza sulla disparità di esperienze tra bianchi e non bianchi, derivata dagli studi, dall’attivismo e dalle esperienze del secolo passato dovrebbe indicare una necessità sopra tutte le altre: storie diverse per persone diverse.

Certo, ci si può godere un Mago di Oz con Diana Ross nella perla The Wiz, ma questo non deve distrarre dal fatto che una storia bianca non parla di esperienze nere, ma impoverisce, ignora e spesso cancella le specificità delle vite non bianche. Emerge così il bisogno di narrazioni originali – e non certo solo in senso drammatico – da contrapporre a remake sempre più impersonali e sbiaditi, ormai topoi letterari.

Della necessità di storie nuove, per cui il colour-conscious casting abbia un valore, se ne parla dopotutto dagli anni Novanta. È del 1996 l’accusa del commediografo afroamericano August Wilson – spesso definito “il poeta teatrale dell’America nera” – contro gli impersonali adattamenti di copioni bianchi, e la spinta alla rivendicazione della propria narrazione. Per Wilson realizzare “una produzione nera di qualunque opera pensata per attori bianchi come investigazione della condizione umana con specifiche della cultura bianca ci toglie la nostra umanità, la nostra storia, e il bisogno di guardare al mondo con le base culturali su cui noi poggiamo come neri americani. È un’aggressione alla nostra presenza, e alla nostra difficile ma onorevole storia in America, è un insulto alla nostra intelligenza, ai nostri commediografi, e ai contributi che abbiamo dato alla società e al mondo intero.”


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