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Secondo l’avvocato Eugenio Losco, impegnato nella tutela dei diritti delle persone in detenzione amministrativa, “in questo momento non ci sono in alcun modo le condizioni sanitarie per permettere la gestione dei Cpr”

In via Corelli, all’estrema periferia est di Milano, fino al 2014 si trovava il Centro di identificazione ed espulsione di Milano, uno dei luoghi simbolo delle politiche migratorie di questo paese. Quando le rivolte dei migranti detenuti ne hanno determinato la chiusura, il centro è stato riconvertito dal 2014 al 2018 in CAS — Centro di accoglienza straordinaria: una formula di detenzione “più blanda” che l’amministrazione cittadina sembrava trovare meno critica.

Nel 2017 però, il decreto Minniti-Orlando ha disposto l’apertura di un Centro di permanenza per i rimpatri in ogni regione. Così, il 28 settembre di quest’anno, è stato inaugurato in sordina il Cpr di via Corelli. La nuova struttura è ancora più simile a un carcere, isolata da ogni altro edificio e con sbarre su tutti i lati. In poco più di due mesi d’apertura, nell’isolamento quasi totale, gli episodi di rivolta all’interno del centro sono stati moltissimi, l’ultimo dei quali domenica 6 dicembre.

Dopo la rivolta di domenica, in seguito al tentativo di suicidio di uno dei trattenuti — un migrante con famiglia in Italia da diversi anni, che temendo di essere nella lista dei rimpatriati aveva inghiottito dei pezzi di vetro e di impiccarsi con le lenzuola — il centro si presenta in condizioni di semi-inagibilità. La rivolta si è estesa a tutti i settori del Cpr, con materassi incendiati e colonne di fumo che avvolgono l’edificio. Nella giornata di ieri si sono svolti ulteriori sopralluoghi, e secondo la rete No Cpr ci potrebbe essere la possibilità concreta di una chiusura della struttura.

La prima rivolta di cui si ha notizia in modo chiaro, però, risale a meno di due settimane dall’apertura. I circa 75 detenuti allora presenti hanno spaccato finestre e porte, due sono riusciti a fuggire mentre quattro sono rimasti feriti durante l’intervento della polizia in assetto antisommossa. Il 6 novembre, invece, 20 tunisini sono stati rimpatriati a colpi di manganello e gas lacrimogeni. Alcuni avevano ingerito dei pezzi di ferro per protesta. Nessuno di loro era riuscito a nominare un avvocato o a capire come muoversi per evitare l’espulsione. Provenivano tutti dalla nave GNV ferma al porto di Palermo: alla fine di una quarantena di 8 giorni erano stati trasferiti immediatamente al Cpr Corelli, dove sono stati trattenuti tre giorni senza la possibilità di comunicare con nessuno, fino al rimpatrio coatto. 

Dopo alcuni episodi di protesta individuale, il 20 novembre si assiste a una rivolta più generalizzata, che innesca la reazione dei sindacati di polizia, che a Milano Today parlano di una struttura inadeguata e di un reparto Covid che con “solo” due positivi è già fuori controllo. Naturalmente i portavoce delle forze dell’ordine si preoccupano dell’incolumità dei propri agenti, ma in questo modo descrivono una situazione estremamente critica anche per i detenuti del centro, in primo luogo dal punto di vista sanitario.

“Se non ci sono le condizioni igieniche, queste persone non si possono trattenere.” 

L’ha spiegato a The Submarine l’avvocato Eugenio Losco, da tempo impegnato nella tutela dei diritti delle persone soggette a detenzione amministrativa: “Si tratta di ambienti ristretti e promiscui, dove è impossibile attuare le precauzioni necessarie. Se non si prendono provvedimenti succederà quello che sta già accadendo nelle carceri”.

Quasi tutti i Cpr contano infatti qualche caso positivo, portato verosimilmente dal personale e dagli agenti di polizia, dato che la maggior parte dei detenuti è costituita da tunisini che provengono da navi quarantena o da hotspot, e che quindi sono già stati ampiamente sottoposti a controlli sanitari. Se i luoghi di detenzione per migranti sono strutture discutibili – se non odiose – in tempi di normale amministrazione, sembra profondamente irragionevole aprirle o accanirsi a mantenerle in epoca di pandemia.

“In questo momento non ci sono in alcun modo le condizioni sanitarie per permettere la gestione di questi centri”, continua Losco: “Per altro non c’è nemmeno un problema di ordine pubblico perché i Cpr – lo ricordiamo – sono strutture di detenzione amministrativa (ci si finisce cioè non per aver commesso un reato ma per non essere in possesso di un titolo di soggiorno). Non a caso durante la prima ondata alcuni paesi europei, come la Spagna, tra i primi provvedimenti anti contagio hanno chiuso proprio i centri di detenzione amministrativa”.

L’emergenza sanitaria si lega a doppio filo a un altro aspetto che sta rendendo ancor più insopportabile la vita nei Cpr: l’isolamento. Nelle due settimane tra il 16 e il 30 novembre, quando nel centro di via Corelli è stata accertata la presenza di due persone positive al Covid-19, tutta la struttura è stata isolata. I colloqui tra detenuti e avvocati difensori sono stati completamente interrotti così come ogni contatto telefonico con il mondo esterno. 

In realtà in via Corelli, come in tutti i Cpr, i problemi di comunicazione vanno oltre l’emergenza Covid. “Al Cpr di Corelli i cellulari personali vengono sequestrati all’ingresso, insieme agli altri effetti personali”, spiega ancora Losco. “Il regolamento interno del centro prevede però la presenza di almeno un telefono fisso ogni 15 persone e una tessera telefonica di 5 euro alla settimana per ogni individuo, ma anche questo diritto non è rispettato. Ci sono solo uno o due cellulari che vengono messi a disposizione ogni tanto. Tutto qui”.

Al momento, nemmeno il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano ha avuto possibilità di entrare nel centro. Soltanto l’assessore Riccardo De Corato ha visitato la struttura, dicendosi molto soddisfatto. La difficoltà nei contatti con l’esterno rende particolarmente fumosa e problematica la gestione di Corelli, tanto che non è sempre ben chiaro nemmeno chi sia trattenuto al suo interno. Per esempio il Naga ha denunciato la presenza di alcuni minori nella struttura, per i quali si è attivato anche il consolato tunisino. 

Le poche voci che arrivano dall’interno parlano di violenze e pestaggi, di ingerenze da parte del personale e delle forze dell’ordine durante i colloqui con gli avvocati difensori, di frequenti episodi di autolesionismo, di lenzuola di carta e ampia somministrazione di benzodiazepine. 

Nella Milano che si barcamena per gestire l’epidemia e allo stesso tempo cerca di difendere la propria fama di città dall’amministrazione progressista e illuminata, è facile capire che del Cpr di via Corelli non si voglia parlare. Sala, che ieri ha comunicato la propria decisione di ricandidarsi, ha messo in discussione la durata del tempo di permanenza dei migranti nella struttura, ma non l’esistenza e l’essenza della struttura stessa. Eppure il Cpr, dove l’eccezione è la norma e in cui l’emergenza giustifica ogni violazione, non è solo una “vergogna cittadina,” ma una zona grigia di sospensione dei diritti, che da anni affronta una situazione di rivolta permanente.

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