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in copertina, foto di una campagna Oxfam sull’impatto della crisi climatica sulla disponibilità del cibo, via Flickr

Perdita del sonno e dell’appetito, attacchi di panico, dipendenze da sostanze: l’emergenza è dell’ambiente che ci ospita, ma anche dentro la nostra testa — proteggere l’ecosistema è il primo modo per proteggere noi stessi

È inutile specificare, ancora una volta, quanto l’emergenza climatica sia la principale prova da superare del nostro tempo. Tuttavia, se da una parte gli scienziati continuano a sottolineare l’urgenza della questione ribadendo la necessità di intervenire in maniera drastica e immediata – le Nazioni Unite chiedono di ridurre ogni anno, fino al 2030, le emissioni di gas serra del 7,6%, dall’altro lato una grossa fetta dell’opinione pubblica sembra ancora disinteressarsi del problema. Tralasciando per un momento chi arriva addirittura a negare l’effettiva esistenza dei cambiamenti climatici, nel sentire comune le conseguenze di questo fenomeno sono ancora in parte avvertite come distanti, lontane da avere un impatto concreto sulle vite di tutti noi.

Al di là delle tragiche conseguenze a lungo termine, gli effetti del riscaldamento globale sono già qui e rappresentano ormai una minaccia attuale, non solo per quanto riguarda il futuro. Basti pensare che, secondo uno studio del 2019 della European Society of Cardiology, nel mondo sono 8,79 milioni l’anno i morti per malattie respiratorie e cardiovascolari causate dall’inquinamento, con i dati che parlano di 136 decessi ogni 100mila abitanti per l’Italia. Oltre a patologie di questo tipo, però, la scienza sta mettendo in luce un problema nuovo o comunque precedentemente ignorato: l’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale. In questo ambito di ricerca pressoché inesplorato, gli studiosi sono costretti ad avanzare con cautela, ma i – non molti – risultati certi per ora raggiunti confermano, ancora una volta, l’urgenza della questione. L’emergenza climatica, così, riguarda l’ambiente nel quale viviamo e vivremo, ma si è insinuata anche nella nostra psiche, radicandosi nei nostri comportamenti. La difesa del nostro ecosistema si sovrappone, quindi, alla difesa della nostra salute mentale: non ci possiamo più permettere di rimandare gli interventi necessari.

A mano a mano che vengono pubblicati nuovi studi sull’argomento, il tema si rivela in tutta la sua complessità, muovendosi su livelli diversi. Il primo, sicuramente, è quello che riguarda le comunità e le dinamiche che le attraversano. I cambiamenti climatici riescono a intervenire sui meccanismi che regolano la vita sociale, come dimostra uno studio dell’American Psychological Association. Ad essere minacciata è la coesione sociale, messa in pericolo dallo stress causato dall’emergenza ambientale, mentre in crescita ci sono aggressioni e tensione. I cambiamenti climatici, però, l’impatto maggiore sulle comunità lo hanno attraverso le migrazioni a loro connesse. Secondo le stime dell’IOM, ad esempio, per il 2050 si arriverà a 200 milioni di migranti climatici. Il riscaldamento globale, infatti, funzionerà — e, per la verità, funziona già — da catalizzatore rispetto a gran parte dei fenomeni che contribuiscono alle migrazioni. Si tratta di meccanismi complessi con più fattori in campo, tra i quali l’accesso alle risorse e ai beni primari, i conflitti per il loro controllo e le conseguenze sulla salute. A questi problemi, secondo una definizione dell’IOM, la politica risponde troppo spesso con la “testa sotto la sabbia”. Ci sarebbe bisogno, invece, di un atteggiamento lungimirante con operazioni di ampio respiro e a lungo termine, che partano innanzitutto dall’ampliamento della definizione di rifugiato.

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Oltre all’impatto sulle comunità, c’è un livello più profondo e individuale della questione. L’emergenza climatica, infatti, riesce a causare danni psicologici al singolo, colpendo direttamente la sua salute mentale attraverso processi molto vari, che spesso si vanno a sovrapporre a problemi già esistenti. Manco a dirlo, le conseguenze più significative le subisce chi è costretto a migrare per ragioni ambientali o chi è vittima di eventi climatici estremi. Lo studio dell’APA riporta come tra il 7% e il 36% di chi è esposto a disastri ambientali sviluppa forme acute di psicopatologia come risposta all’evento, tra i quali ansia, fobie, depressione e sviluppo di dipendenze. Spesso, inoltre, terminata la fase acuta, può permanere uno stato psicologico assimilabile allo stress post-traumatico. Basti pensare che nell’area interessata dall’uragano Katrina, a un 1 abitante su 6 era stato diagnosticato il PTSD, mentre il 49% della popolazione era colpita da ansia o depressione. Uno studio pubblicato dall’U.S. Global Change Research Program, inoltre, ha evidenziato come le tendenze suicide degli abitanti della parte degli Stati Uniti colpita dall’uragano avessero sviluppato fino al 6,4% in più di tendenze suicide. 

Accanto all’impatto acuto che, come detto, colpisce prevalentemente chi è esposto a fenomeni estremi, i cambiamenti climatici possono intaccare la salute mentale anche di chi – apparentemente – non si ritrova a vivere situazioni drastiche dal punto di vista ambientale. Il disturbo cronico più diffuso – e che può avere molteplici conseguenze – è l’ecoansia. La rivista scientifica The Lancet definisce questo disturbo come la presenza d’ansia in relazione alla minaccia rappresentata dall’emergenza climatica. Tutto ciò ha effetti diversi, che vanno dalla perdita del sonno e dell’appetito a veri e propri attacchi di panico, ma può causare anche dipendenze da sostanze. 

A causare disturbi psicologici, però, non sono solo le preoccupazioni date dai cambiamenti climatici, ma anche fattori ambientali misurabili, come l’innalzarsi delle temperature e la peggior qualità dell’aria.

È stato sottolineato, infatti, il legame che associa inquinamento e temperature più alte allo sviluppo di comportamenti aggressivi e tendenze suicide. Questi fattori, inoltre, rendono talvolta più difficile praticare attività all’aperto – soprattutto nelle grandi città – con conseguenze dirette sul benessere psico-fisico individuale (come abbiamo potuto sperimentare, per altri motivi, tutti noi durante il lockdown). A tutto ciò è connesso un fenomeno nuovo – o, almeno, da poco definito – come quello della solastalgia, termine con cui si indica il disagio causato dalla distruzione o modifica di un luogo al quale si era sentimentalmente legati. Come visto, quindi, i disturbi psicologici causati dai cambiamenti climatici hanno molto a che fare con il modo in cui ciascun individuo si rapporta all’ambiente che lo circonda: se è quest’ultimo a subire una modifica o a essere danneggiato, allora anche la salute mentale di chi ci vive rischia di essere colpita.

Anche in questo scenario, già di per sé allarmante, non mancano disuguaglianze a rendere pressoché psicologicamente insostenibile la situazione per determinate categorie di individui. Secondo lo studio dell’APA, è più esposto, naturalmente, chi già presenta psicopatologie. Accanto ad essi ci sono i bambini, maggiormente vulnerabili e con una grossa tendenza a somatizzare certi disturbi, e gli anziani. La diversa esposizione, però, non ha alla base solo questioni anagrafiche, ma soprattutto motivazioni socio-economiche. A essere più a rischio rispetto all’emergenza ambientale sono – oltre a chi entra in contatto con fenomeni climatici estremi – coloro che con più difficoltà accedono ai servizi sanitari o che vivono in condizioni economiche peggiori, anche all’interno di una stessa area geografica. Chi è meno abbiente, infatti, secondo l’U.S. Global Change Research Program, ha meno possibilità di adattarsi a fenomeni naturali particolarmente distruttivi. Inoltre, è più probabile che le fasce più economicamente svantaggiate della popolazione siano impegnate in settori lavorativi più vulnerabili come l’agricoltura e la pesca. Uno studio australiano, ad esempio, ha individuato un legame tra i continui periodi di siccità e l’elevato numero di suicidi tra gli agricoltori.

L’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale è tangibile e non può più essere ignorato. Siamo davanti a un fenomeno che non riguarda solo alcune aree del pianeta, ma che – come dimostrato anche da un recentissimo studio a firme tutte italiane – ha a che fare con tutti gli abitanti del globo. Semmai servisse un’ulteriore motivazione per affrontare seriamente l’emergenza ambientale, la difesa della nostra salute mentale dovrebbe fungere da sprono, facendo capire come già adesso stiamo pagando le conseguenze dei cambiamenti climatici, al di là delle previsioni catastrofiche per il futuro. Le ricette suggerite dagli scienziati per fronteggiare questo problema vanno in due direzioni. Da un lato, propongono di rafforzare i legami interni alle comunità: gli individui più isolati subiscono maggiormente il contraccolpo psicologico causato da fenomeni climatici più o meno estremi. Dall’altro lato, l’invito è rivolto alla classe politica che, intervenendo in maniera davvero significativa per contrastare emissioni e inquinamento, ha la possibilità di ridurre il peso psicologico dell’emergenza sui cittadini. L’emergenza, quindi, è dell’ambiente che ci ospita, ma anche dentro la nostra testa: proteggere l’ecosistema è il primo modo per proteggere noi stessi.

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