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in copertina, foto CC Seyyed Mahmoud Hosseini

In campi profughi troppo piccoli per garantire distanziamento di sicurezza, o in mare per mesi senza soccorso, le condizioni dei Rohingya sono tragiche anche durante la pandemia. Ma la confessione di due soldati per la prima volta conferma l’intento genocida dell’esercito del Myanmar

Dopo essere rimaste in mare per sei mesi, 300 persone di etnia Rohingya sono sbarcate lunedì 7 settembre sulle coste di Aceh, regione dell’Indonesia sull’isola di Sumatra. Prima di raggiungere la terraferma, i profughi sono stati rifiutati sia dalla Malesia sia dalla Thailandia a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia. Il responsabile della Croce Rossa della città di Lhokseumawe, Junaidi Yahya, ha detto che i rifugiati sono stati isolati in un centro di detenzione provvisorio per evitare un contagio.

La pandemia ha peggiorato la situazione, già molto precaria, dei Rohingya. Le condizioni in cui si trovano i campi profughi si fanno sempre più precarie — in particolare in quello di Kutupalong che, con oltre 600.000 rifugiati, è il più grande al mondo. Le persone vivono in luoghi sovraffollati costruiti con plastica e bambù, e l’accesso ai servizi basilari è quasi inesistente.

La situazione è diventata critica a fine maggio, quando sono stati registrati i primi casi di Covid-19. Per contrastare la diffusione del virus è stato imposto l’isolamento di 15.000 persone — ma a far temere il peggio è l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale, la scarsa igiene e la mancanza di mezzi: una situazione purtroppo comune a vari casi di gestione delle migrazioni in tutto il mondo, come abbiamo visto anche in Europa e in Italia.

“La pandemia di Covid-19 ha acuito la vulnerabilità dei Rohingya. La mancanza di uno status legale e l’assenza di soluzioni a lungo termine rende il loro futuro più incerto che mai – afferma Alan Pereira, capomissione di Medici senza frontiere (Msf) in Bangladesh – In un momento in cui in tutto il mondo ci si trova a fare i conti con spostamenti ridotti e piani accantonati, è importante ricordare come questa sia la condizione dei Rohingya da generazioni”.

È utile ricordare la vicenda dei Rohingya, una minoranza di fede musulmana originaria del Myanmar, ex Birmania, residente soprattutto nello stato di Rakhine, a ovest del Paese, vicino al Bangladesh. Il Myanmar non riconosce però i Rohingya in quanto indigeni, sostenendo che siano originari del Bangladesh o del Bengala, regione indiana. In questo modo sono negati loro i diritti fondamentali: non possono infatti avere accesso ai servizi destinati ai cittadini buddhisti — il Myanmar è un paese a maggioranza buddhista — non possono possedere terreni e non possono lasciare il Rakhine senza autorizzazione. Molti di loro vivono in condizioni di povertà estrema.

Ieri, per la prima volta, è emersa una testimonianza video in cui due soldati del Tatmadaw, l’esercito della Birmania, che hanno preso parte alla campagna genocida in Rakhine. Uno dei due uomini, Myo Win Tun, dice chiaramente nella testimonianza di aver ricevuto un ordine semplicissimo — “Sparate a tutto quello che vedete e sentite.” L’altro soldato, Zaw Naing Tun, aggiunge “Abbiamo raso al suolo almeno 20 villaggi.” La testimonianza video, registrata da milizie ribelli, costituisce un documento di rilevanza storica — prima di questo momento, infatti, nessun membro dell’esercito ha mai ammesso di aver preso parte ad una campagna il cui scopo fosse esplicitamente genocida. Lunedì i due uomini — che sono lasciato il proprio paese il mese scorso — sono stati portati all’Aia.

La situazione è degenerata a partire da agosto 2017, quando nel Rakhine sono iniziati gli scontri tra l’esercito birmano e i ribelli Rohingya. Nelle settimane successive oltre 730.000 civili sono stati costretti a scappare in Bangladesh, stabilendosi nei campi profughi alla frontiera. Il rimpatrio dei Rohingya in Myanmar sarebbe dovuto iniziare all’inizio del 2018 ma, a causa delle proteste di diversi gruppi per la difesa dei diritti umani, il Bangladesh ha rimandato. Nell’aprile dello stesso anno sembrava che i due paesi avessero raggiunto un accordo per rimpatri sicuri e volontari, con nuove scadenze, ma nessun piano è andato a buon fine.

Tra maggio 2018 e maggio 2019, solo 185 profughi sono stati rimpatriati, di cui appena 31 volontariamente: 92 erano stati fermati dalle autorità birmane mentre cercavano di scappare su una barca e altre 62 erano state rilasciate dalle carceri. Le autorità birmane accusano i Rohingya più attivi politicamente e le organizzazioni musulmane che operano nei campi profughi in Bangladesh di aver dissuaso le persone a tornare, ma la verità è che il Myanmar ha fatto ben poco per cambiare le loro condizioni in patria: continuano le distruzioni di interi villaggi, le uccisioni indiscriminate e gli stupri di massa. 

In un rapporto pubblicato il 16 settembre 2019 a Ginevra, l’ONU mostra come i 600.000 Rohingya rimasti in Myanmar siano costantemente sotto minaccia di genocidio. Un rimpatrio è quindi considerato “impossibile.” La questione ha sollevato perplessità anche attorno alla figura di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 per l’impegno nella difesa dei diritti umani, Ministro degli Affari Esteri dal 2016 e leader de facto del Paese. Il suo silenzio nei confronti delle politiche del governo l’ha screditata nell’opinione pubblica estera così come in quella interna: il suo partito, la “Lega nazionale per la democrazia” ha avuto infatti un pesantissimo calo di consensi.

La leader ha dovuto difendere il suo governo a gennaio di quest’anno dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja dalle accuse di crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra. Il 23 gennaio la Corte ha stabilito che il Myanmar dovrà prendere dei provvedimenti per proteggere i Rohingya: si tratta del primo verdetto di un tribunale internazionale contro il paese, scrive Internazionale.

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