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Invece di parlare di senso civico, dovremmo chiederci perché il governo ha scelto di regalare soldi anche a chi non ne aveva nessun bisogno

Lo scandalo che tiene banco da qualche giorno nel dibattito politico italiano — quello dei parlamentari che hanno richiesto all’Inps i due bonus da 600 e 1000 euro per le partite Iva “in difficoltà” a causa della pandemia — potrebbe sembrare esagerato per una semplice questione numerica: ad aver chiesto il bonus sarebbero stati infatti cinque parlamentari, ma sono solo tre quelli che poi l’hanno effettivamente ottenuto — due della Lega, uno del Movimento 5 Stelle. Su 945 parlamentari, tutto sommato, è una percentuale talmente bassa che quasi ci si dovrebbe stupire — anche se il calcolo andrebbe fatto sul totale di eletti dotati di una partita Iva, che almeno alla Camera sono 137.

La questione ovviamente è simbolica o, come si diceva una volta, di “opportunità politica”: incarnazione della Casta per eccellenza, il parlamentare che nonostante i propri lauti onorari si accaparra gli spiccioli di un bonus pensato per le piccole partite Iva danneggiate dalla crisi è una specie di mostro finale dell’antipolitica, capace di innescare una recrudescenza dello scontro mai sopito tra “la gente” e il Palazzo. Tanto che qualcuno ha avanzato qualche sospetto sul tempismo con cui l’Inps, presieduto da un uomo vicino ai 5 Stelle come Pasquale Tridico, ha deciso di tirare fuori lo scandalo: a poco più di un mese dal referendum sul taglio del numero dei parlamentari, una riforma “di bandiera” del Movimento 5 Stelle e passata in Parlamento anche con l’appoggio del Pd, in cui però il fronte del No si sta facendo sempre più ampio. Cosa c’è di meglio di una nuova conferma del malcostume diffuso tra deputati e senatori per cavalcare vittoriosamente la campagna referendaria del Sì?

A guardare la vicenda da un altro punto di vista, la caccia all’uomo che si è scatenata sulle tracce dei tre o cinque parlamentari incriminati, con appelli bipartisan all’autodenuncia e inviti a bypassare la tutela della privacy per farsi dare i nomi direttamente dall’Inps, ha un che di paradossale. Così come è francamente patetica la sfilza di sindaci, consiglieri regionali o comunali che si stanno facendo avanti spontaneamente, confessando di aver chiesto il bonus con le motivazioni più varie — c’è chi non arriva a fine mese, chi ha preferito dare la colpa al commercialista, chi addirittura dice di averlo preso per darlo in beneficenza. Perché il punto, nonostante il fastidioso appellativo di “furbetti” che va sempre di moda sui giornali, è che qui nessuno ha compiuto nulla di illegale: non ci sono raggiri o gabole, né privilegi da professionisti della politica. Per i lavoratori autonomi chiedere il bonus era piuttosto semplice — una procedura online, e poi il rinnovo automatico — ed è ragionevole che tutti quelli che ne avevano diritto ne abbiano approfittato.

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Mettendo da parte l’opportunità politica, il “buon esempio,” l’etica e il senso civico, la notizia non dovrebbe essere che uno sparuto gruppo di politici ha richiesto il bonus — meno sparuto se si contano anche gli amministratori locali con stipendi già elevati, come i consiglieri regionali piemontesi che tra una cosa e l’altra guadagnano già circa 8000 euro al mese — ma che a farlo sono stati dei liberi professionisti con redditi già molto alti, non importa se con incarichi politici o no. Detta in altri termini: la notizia è che i decreti del governo hanno permesso che tutte le partite Iva potessero accedere al bonus, sostanzialmente regalando soldi a chi non ne aveva bisogno, in una congiuntura economica difficile che richiederebbe misure molto più robuste a sostegno delle fasce più svantaggiate della popolazione. Ma questa era una notizia già tre mesi fa — eppure non ha fatto molto scalpore. 


Quanti sono i professionisti che hanno fatto prevalere un’idea astratta di “senso civico” e hanno riconosciuto di non aver bisogno del bonus, e quanti invece se ne sono semplicemente approfittati? Sarebbe interessante se l’Inps desse anche qualche dato in questo senso. Di sicuro, sappiamo che da parte di imprenditori e liberi professionisti italiani c’è una certa tendenza all’accaparramento di tutto il possibile: secondo dati del 2019, tanto per fare un esempio, l’evasione dell’Irpef tra i lavoratori autonomi è al 68% — pari a 33,2 miliardi di euro dovuti ma non dichiarati o non versati — mentre è notizia di poche settimane fa che 234 mila aziende hanno chiesto ore di cassa integrazione pur non avendo registrando cali di fatturato.

Tra bonus, contributi a fondo perduto, sconti fiscali e decontribuzioni varie, i decreti varati per fronteggiare l’emergenza sanitaria sono probabilmente insufficienti per chi è stato veramente colpito dalla crisi economica connessa al lockdown, ma sono una vera a propria mangiatoia per tutti gli altri. Complice una maggioranza parlamentare che ha preferito non fare distinzioni e regalare fondi “a pioggia” — ma non a tutti: ai soliti noti. Le partite Iva sono un esempio perfetto di quanto sia poco sensato non distinguere tra classi di fatturato: citate spesso come se fossero una realtà omogenea e granitica, le partite Iva sono in realtà un universo estremamente frammentato e disomogeneo, che va dai precari delle professioni creative (come fonici, videomaker, grafici) ad avvocati, commercialisti, medici, dentisti, passando dagli artigiani grandi e piccoli. Un “ceto” che comunque, preso nel suo insieme, dichiara in media 33 mila euro in più del contribuente medio, e che è già stato privilegiato dalla cosiddetta “flat tax” al 15% per chi fattura fino a 65 mila euro, un provvedimento voluto dalla Lega e confermato dall’attuale governo

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Perché allora non sono stati messi dei paletti, che magari avrebbero permesso anche di elevare la cifra del bonus per le partite Iva nelle classi di fatturato più basse? Secondo la viceministra Castelli, semplicemente non c’è stato tempo: “Abbiamo scritto una norma generale, che non lasciasse fuori nessuno e arrivasse nel giro di pochissimi giorni. Non si poteva rischiare di non dare supporto a chi ne aveva bisogno.” Eppure, per altre tipologie di sussidio i vincoli ci sono, e sono anche stringenti: come il reddito di emergenza, arrivato con due mesi di ritardo rispetto al lockdown e vincolato all’Isee, ma anche misure più modeste come il “bonus vacanze,” che giustamente non viene erogato a prescindere dal reddito di chi ne fa richiesta. Lo stesso rinnovo del bonus per le partite Iva, a maggio, è stato vincolato a una perdita di fatturato pari almeno a un terzo rispetto all’anno precedente, ma senza nessun tetto in termini assoluti. 

Il discorso potrebbe allargarsi anche oltre i bonus per i lavoratori autonomi: pensiamo per esempio al Superbonus al 110%, che a certe condizioni permette di eseguire dei lavori di ristrutturazione praticamente gratis. I redditi alti sono esclusi dal godimento di queste detrazioni? Ovviamente no: si è pensato di escludere, per una questione forse di decenza, soltanto le case di lusso, mentre sono state incluse senza problemi anche le seconde case. Eppure chi ha una seconda casa, nella gran parte dei casi, potrebbe benissimo permettersi di pagare le ristrutturazioni senza l’aiuto dello stato. 

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Forse allora il problema è un altro, ed è che si preferisce fare maggiori concessioni o regalie a fasce sociali medio-alte, spesso rumorosamente rappresentate da associazioni di categoria ben inserite nel gioco politico — da Confindustria alla miriade di associazioni e gruppi di interesse che tutelano artigiani, commercianti e liberi professionisti. Gruppi che pesano di più in termini elettorali rispetto alle fasce più basse, come disoccupati e lavoratori dipendenti a basso reddito, quindi spesso poco qualificati, magari in settori dove è predominante la manodopera di cittadini stranieri senza diritto di voto (logistica, agricoltura, servizi di pulizia). I parlamentari che hanno chiesto il bonus all’Inps rappresentano insomma alla perfezione il proprio bacino elettorale di riferimento: specialmente quelli leghisti, che da sempre affondano il proprio consenso in quel blocco sociale imprenditoriale, affarista e arraffone, che odia lo stato finché si tratta di pagare le tasse, ma che è sempre in prima fila quando si tratta di rastrellare bonus, agevolazioni e sconti. 

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