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in copertina, foto via Facebook

Il “modello Genova” include anche una cattiva gestione degli aiuti, una retorica vuota e grossi punti interrogativi sull’opportunità di una maggiore disinvoltura sulle grandi opere

La pioggia viene e va in questa giornata d’inaugurazione. “Pioveva allora e piove anche oggi,” dice il commissario straordinario e sindaco Bucci durante la conferenza stampa insieme a Toti, presidente della regione e commissario all’emergenza. I toni sono pacati, non c’è sentore di festa, per essere anche in linea con quanto voluto dal presidente della Repubblica, Mattarella. Perché non c’è nulla da festeggiare, come dimostra l’assenza del comitato delle vittime del Ponte Morandi, che ieri pubblicava sui social: “Non presenzieremo ben consapevoli che vi sia tutto tranne che da festeggiare per la ricostruzione di un viadotto che non sarebbe dovuto mai crollare.” Eppure “resta la soddisfazione per l’impresa riuscita grazie al lavoro di donne e uomini che oggi ringrazieremo e che ci hanno fatto rialzare con fierezza e tenacia. Lo avevamo promesso ed è stato così,” dice Toti in conferenza stampa.

Il nuovo ponte, il San Giorgio, ha attirato l’attenzione nazionale per via della sua eccezionalità. Un’opera grandiosa, tech come in Italia ne abbiamo viste poche. Costruito in due anni ad un costo di 202 milioni di euro, senza che la burocrazia potesse fermare o rallentarne il lavoro. E qui arriviamo a quello che si stanno chiedendo tutti: è replicabile il modello Genova? Stando a quanto dice l’amministratore delegato di Webuild, già Salini Impregilo, azienda presente a livello mondiale e specializzata nella costruzione di grandi infrastrutture, Nicola Meistro “mi auguro che sia replicato ovunque.”

Tuttavia a ben vedere se ne sta facendo un uso improprio: la ricostruzione del ponte sta forse venendo usata per far passare l’idea che bypassare le regole, le gare di appalti e quelle europee sia una figata. E questo è molto pericoloso, il modello del ponte è irripetibile: perché ci sono stati 43 morti, il clima era molto particolare, quasi di unità nazionale; Autostrade era disposto a pagare tutto il necessario: era un progetto che non prevedeva budget.

Eppure è anche vero il contrario, come afferma l’editorialista del Corriere Imarisio, “non è accettabile la posizione di chi invece si limita a sostenere che il sistema-Genova non è replicabile.” Perché se le infrastrutture rappresentano davvero il cuore della nostra ripresa, i tempi lunghi, anzi lunghissimi dei cantieri sono una palla al piede. E la nascita del nuovo ponte lo dimostra, in Italia c’è un problema di burocrazia. Al di fuori dei toni trionfalistici il modello non è replicabile così com’è, ma forse è il caso di imparare qualche lezione da questa impresa. Quale? Non guardare al ponte. 

Un chilometro e sessantasette di lunghezza, cinquanta metri di altezza, costruito sobrio, senza fronzoli, “come sono i genovesi” secondo il sindaco Bucci. Il ponte però ha distratto l’opinione pubblica da quello che è avvenuto al di sotto. Il governo infatti aveva previsto degli aiuti per tutte le attività danneggiate dal crollo. Ma quei soldi, a loro, non sono mai arrivati. Anzi, come ha ricostruito Marco Grasso, chi avrebbe avuto più diritto di prendersi i soldi non li ha ricevuti. Il che, in vista dell’arrivo degli aiuti europei, potrebbe insegnarci una qualche lezione, oltre alle specifiche tecniche di un ponte. Ma cominciamo dall’inizio. 

Era il 14 Settembre del 2018 quando il presidente Conte si presentò nella piazza principale della città, sventolando la bozza finale del decreto Genova: “non sono venuto a mani vuote, ho portato dei fogli pieni di fatti. Misure concrete, per tutti i danneggiati.” All’indomani del crollo infatti arrivarono a Genova 235 milioni di euro, destinati al sostegno delle aziende in difficoltà della Valpolcevera. In particolare a tutte quelle attività in prossimità della zona di crollo, che erano state danneggiate o avevano dovuto sospendere l’attività. Il decreto prevedeva tre principali forme d’aiuto. La prima, e forse la più importante, l’erogazione di una tantum emergenziale di quindicimila euro; una serie di sgravi fiscali, la seconda, da concedere alle aziende, con un calo di fatturato dimostrabile e presenti in un’area ben delimitata denominata: zona franca urbana; e infine l’ultimo, sgravi fiscali dedicati a tutti quelli che avessero portato la sede della propria azienda vicino alla zona colpita. Su questo spese due parole anche il sindaco Bucci, che sognava un incubatore d’imprese sotto il nuovo ponte. 

A causa di criteri troppo restrittivi e ampliamento della zona coinvolta, però, in molti non hanno ricevuto nessuno degli aiuti promessi. Il decreto Genova infatti stabiliva in modo molto generico chi dovesse esserne beneficiario. Il compito poi di circoscrivere l’area e distribuire effettivamente i fondi era del commissario all’emergenza, Toti. 

Per la prima forma di aiuto, e forse la più importante, si prevedeva l’erogazione di una tantum emergenziale di quindicimila euro per le piccole attività. Tuttavia molte di esse sono state escluse a causa dei criteri di assegnazione troppo restrittivi, che invece hanno invece favorito attività floride e in zone lontane da quelle più colpite. Scrive il giornalista del Secolo XIX Marco Grasso: bisognava dichiarare di aver chiuso l’attività per colpa del crollo per almeno quattro giorni continuativi, ma molti piccoli negozianti per disperazione non hanno mai abbassato la serranda.” Paradossalmente, quindi, molti dei soldi stanziati sono andati a tutti quei negozianti, che si potevano permettere di andare in vacanza, ma non solo. Fra i beneficiari c’è anche Gian Federico Vivado, imprenditore indagato per bancarotta fraudolenta nell’ambito dei fallimento della Ipa industries spa, un crac da 50 milioni di euro.”

Dei 30 milioni previsti per la tantum ne sono rimasti 13, che non sono ancora stati spesi. Secondo quanto dice la regione Liguria, non è di sua competenza stabilire che farne, ma sarebbe compito del governo. Il governo d’altro canto non avrebbe ancora dato una risposta, e quindi la regione ha le mani legate. Tuttavia, come afferma Massimiliano Braimanti, portavoce del comitato zona arancione, che raggruppa più di seicento attività interessate dal crollo del ponte Morandi, non sarebbe del tutto vero. “Attraverso una mozione fatta a regione Liguria dal capogruppo PD Lunardon, abbiamo scoperto che è la regione a non volerli dare.” Sulla mozione, infatti, si legge: “Considerando la situazione di crisi in cui versa la regione Liguria, ulteriormente aggravata dall’emergenza epidemiologica da Covid-19, è stata avanzata al presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte, con nota a firma della giunta regionale Toti, la richiesta di consentire alla regione Liguria l’utilizzo delle risorse residue per iniziative a favore delle imprese e dei lavoratori su tutto il territorio regionale.”

“Quanto possono contare — chiede Braimanti — i 200 poveracci tra Certosa e Sampierdarena, di fronte invece alle centinaia di migliaia di cittadini liguri, soprattutto in tempo di campagna elettorale?”

E non è finita. Perché è nelle altre due forme di aiuto che si è dato il peggio. Secondo quanto stabilito, infatti, erano previste due tipologie di sgravi fiscali. Il primo dedicato alle aziende che hanno riscontrato un calo di fatturato di almeno il 30% nel periodo di agosto 2018. Il secondo invece per le imprese che avessero portato la sede della propria azienda vicino alla zona colpita. Su questo spese due parole anche il sindaco Bucci, che sognava un incubatore d’imprese sotto il nuovo ponte. Tuttavia non è andata così. Fra chi ha goduto degli sgravi ci sono imprese fantasma, una ditta partecipata da società anonime svizzere, un’azienda sequestrata per presunti legami con la ndrangheta, società in serie nello stesso ufficio costituite presso lo stesso notaio. E più in generale, un buon numero di start up che si occupano di consulenze fiscali e altre che, all’apparenza, hanno una scarsa operatività. C’è un po di tutto nell’elenco delle 47 società beneficiarie” scrive Grasso. 

La cerimonia di inaugurazione del ponte inizia ufficialmente alle 18:30. A parlare sono, in ordine, il sindaco Bucci, il presidente Toti, Renzo Piano e infine il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Durante il suo discorso, parla della concessione ad Autostrade — che a oggi è ancora proprietaria del ponte — di Pietro Calamandrei e della pandemia da Covid. A questo proposito dice: “non abbiamo esitato a porre in essere misure economiche a beneficio dei lavoratori, delle imprese e delle famiglie per contrastare la recessione economica. La portata europea e globale della crisi in atto, ha portato l’Europa, per la prima volta nella sua storia a offrire” uno strumento per superarla. Fra Recovery Fund, Mes, Sure, linee di credito Bei e programma di investimenti della Bce, infatti potrebbero arrivare nella pancia dello stato all’incirca cinquecento miliardi di Euro. Parafrasando Imarisio, sarebbe da ingenui ignorare in che paese viviamo, ma sarebbe altrettanto stupido scuotere la testa senza speranza, pensando che tutto debba andare necessariamente a rotoli. Il punto è non lasciarsi distrarre e guardare sotto al ponte, piuttosto che al ponte in sé. 

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