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in copertina, foto Guardia di Finanza Piacenza

Il caso della caserma dei carabinieri di Piacenza, trasformata nel centro operativo di una cellula criminale, dovrebbe essere l’occasione per affrontare il problema dal punto di vista sistemico

Ricettazione, falso, traffico e spaccio di droga, lesioni, violenza privata, perquisizioni e ispezioni personali, arresti illegali, estorsione, tortura: sono alcuni dei reati contestati dalla Procura di Piacenza ai carabinieri di una caserma della città, che è stata posta sotto sequestro (è la prima volta che succede una cosa del genere.) Le indagini vanno avanti dal 2017 e hanno portato a 22 misure cautelari: 12 indagati, tra cui 5 carabinieri, sono finiti in carcere, mentre 5 — tra cui il maresciallo comandante — sono agli arresti domiciliari, e altri 4 — un carabiniere e un finanziere — hanno solo l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria. Gli indagati avrebbero costituito una vera e propria associazione a delinquere in “stile Gomorra” — serie tv citata esplicitamente da uno degli spacciatori che collaboravano con i carabinieri, intercettato. Un solo militare della caserma non risulta coinvolto.

La procuratrice Grazia Pradella ha definito “impressionanti” i reati contestati. Tra gli aspetti più odiosi, c’è il fatto che tutti gli illeciti più gravi “sono stati commessi durante il lockdown.” Per esempio, i militari fornivano autorizzazioni per gli spostamenti ai propri fornitori, in modo che potessero raggiungere Milano per procurarsi la droga. C’è anche il caso — meno grave, ma emblematico dell’atteggiamento di impunità dei militari — di una grigliata organizzata in pieno lockdown da uno degli indagati, nel giorno di Pasqua. Una vicina di casa l’ha denunciato — ma ha fatto l’errore di chiamare gli stessi carabinieri. “La pattuglia te l’ho mandata io perché non sapevo che era casa tua […] Guarda se possiamo fare a meno, io non ho scritto niente, non ho detto un cazzo a nessuno,” si sente nelle intercettazioni.


Buongiornissimo

Tra i fatti più gravi, che giustificano l’accusa di tortura, c’è il pestaggio ai danni di un presunto spacciatore, non sottoposto a provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria, e quindi vittima di un vero e proprio sequestro di persona. La procuratrice, durante la conferenza stampa, ha fatto ascoltare il file audio registrato attraverso il telefono di uno degli indagati, in cui si sente la vittima più volte piangere e gridare aiuto, mentre sembra soffocare a causa “della forzata ingestione di liquido per indurlo a parlare.”

Il comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri ha commentato le indagini al TG1 di ieri sera, dicendo che “i reati ipotizzati sono gravissimi e per questo motivo procederemo con il massimo rigore per l’accertamento in via autonoma disciplinare della posizione dei singoli.” Affermazioni abbastanza nette — simili a quelle che lo stesso Nistri finalmente spese, lo scorso anno, per commentare gli ultimi sviluppi sull’omicidio di Stefano Cucchi, scrivendo una lettera alla sorella Ilaria. Anche in quel caso, però, l’impegno verso l’accertamento delle responsabilità individuali veniva messo in ombra dallo zelo nel ribadire “l’onore” e i “valori” dell’Arma, “infangato” da chi commette “atti con essa inconciliabili” e “comportamenti che non ci appartengono.”

In questo modo, ci si rifiuta di individuare le cause di questi episodi di violenza nella natura stessa dei corpi militari e polizieschi, permeati spesso da un cameratismo omertoso che la vicenda stessa di Stefano Cucchi — con i depistaggi e il coinvolgimento di tutta la gerarchia di comando — ha evidenziato in maniera palese.

È un ragionamento poco distante dalla trita retorica delle singole “mele marce”: particolarmente difficile da applicare a questo caso, dato che ad essere coinvolta è un’intera caserma, ma qualcuno ovviamente ci è riuscito. In primis il solito Salvini, che nel proprio intervento di ieri al Senato ha detto che “l’eventuale errore di pochi” non deve essere “la scusa per infangare donne e uomini che rappresentano una delle parti migliori del Paese.” Ma anche, per esempio, la portavoce del M5S in Emilia Romagna Silvia Piccinini, secondo cui l’operazione della Procura di Piacenza “isola mele marce all’interno delle forze dell’ordine.”

Non si tratta di “infangare” l’arma dei carabinieri o chi per loro: si tratta di riconoscere che c’è un problema sistemico di violenza e di abuso di potere, insito nel modo in cui sono strutturati i corpi militari e di polizia, e che questo problema può essere affrontato. Come argomenta Luigi Manconi in un editoriale per La Stampa, “È vero: la gran parte dei membri di questi apparati è costituita da persone per bene, ma ciò che davvero sembra mancare è una efficace rete di anticorpi.” L’inchiesta di Piacenza arriva soltanto un giorno dopo le rivelazioni sulle torture sistematicamente praticate all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Come sottolinea Manconi, le due vicende hanno un tratto comune:

“Carcere e caserma sono istituzioni totali (secondo la sempre valida definizione di Erving Goffman), al cui interno, gli operatori (in questo caso poliziotti penitenziari e carabinieri) vivono un’esistenza fortemente integrata, fatta di rapporti camerateschi e solidarietà virile”

Le gerarchie di potere che si formano all’interno di queste istituzioni rendono possibili casi come quelli di Piacenza e Torino, al di là delle responsabilità penali individuali e la sensazione di “un ambiente che garantisce l’impunità.”

Cosa fare, dunque? Bisognerebbe avviare “un processo di democratizzazione interna, capace di smantellare tutte le sottoculture, le ritualità, le consuetudini fascistoidi che tuttora vi permangono.” Senza questo processo di democratizzazione, conclude Manconi, “il poliziotto, il carabiniere e l’agente carcerario continueranno a considerare il cittadino come qualcuno da sospettare o una minaccia da sventare o un nemico da sopraffare. E saranno solo ulteriori sofferenze.”

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