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Un mese e mezzo fa Trump parlava di “dominare” gli attivisti di Black Lives Matter. Era stato criticato aspramente, negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Poi ci siamo distratti, e ha provato a farlo davvero

Ieri Trump ha annunciato un nuovo piano per “combattere i crimini violenti,” che prevede l’invio di centinaia di agenti da varie agenzie federali nelle grandi metropoli statunitensi. Il piano, che l’amministrazione ha deciso di chiamare “Operation Legend” — da LeGend Taliferro, un bambino di quattro anni ucciso nel sonno a casa sua il mese scorso a Kansas City — arriva dopo due settimane di repressione violenta delle proteste a Portland, proprio per mano di agenti federali. Trump ha annunciato che 200 agenti sono già arrivati a Kansas City, e altrettanti arriveranno a Chicago. 35 agenti saranno inviati invece ad Albuquerque. 

Il presidente non ha cercato di nascondere che si tratta di un’operazione repressiva: durante il proprio intervento, il procuratore generale Barr ha collegato il presupposto aumento della criminalità con le richieste di riformare — e tagliare i fondi — alla polizia, indicando specificamente Minneapolis, Philadelphia e New York come “problematiche.”

Mentre Portland continua ad essere teatro delle violenze di polizia, da giorni si teme una deriva simile anche a Chicago — che sembra ora inevitabile. Lo scorso fine settimana la tensione era arrivata al punto di rottura quando la polizia ha reagito con violenza assurda per proteggere una statua di Cristoforo Colombo — arrestando più di dieci persone e arrivando a spaccare i denti a un’attivista di diciotto anni, che poco prima aveva tenuto un discorso. La sindaca di Chicago Lightfoot ha risposto dicendo che “in nessuna circostanza” permetterà “alle truppe di Donald Trump di arrivare a Chicago e terrorizzare i nostri residenti.” Nelle ore precedenti all’annnuncio, che era nell’aria da quando Trump aveva difeso le violenze insensate a Portland, Lightfoot aveva dichiarato che era disposta ad accogliere agenti federali pronti a collaborare con le forze dell’ordine nella gestione dell’ordinaria amministrazione, ma che “non avrebbe dato il benvenuto alla dittatura.”

Ma com’è successo che il clima negli Stati Uniti è arrivato al punto che la sindaca di una metropoli accusa il presidente di voler imporre “una dittatura”?

Facciamo un passo indietro e torniamo allo scorso primo giugno: la morte di George Floyd aveva scosso l’animo del paese, e proteste numerosissime si tenevano quotidianamente in tutte le metropoli. Messo sotto pressione, dopo quella che all’epoca si pensava fosse la prima ondata di coronavirus, ridicolizzato per essersi rifugiato nel bunker della Casa bianca, Trump ordina ai governatori di “dominare” i propri stati. La reazione sconcertata di politica e media è istantanea, e la condanna è unanime. Nei giorni successivi si ripetono numerosi episodi di violenza, spesso anche gravi, ma Trump non dà mai seguito alle proprie minacce: l’unica eccezione è Washington, dove il presidente ha più controllo rispetto al resto del paese. L’esercito arriva nella capitale, ma il loro possibile intervento sul territorio nazionale spacca il Pentagono. Alla fine Trump ordina che le truppe si ritirino senza arrivare mai allo scontro diretto.

Nelle settimane successive succede qualcosa di estremamente pericoloso: le proteste continuano senza sosta, e seppur rimanendo numerose, i cortei si assottigliano, i cori si fanno meno rumorosi, e le proteste di Black Lives Matter spariscono dai telegiornali, poi dai giornali online, e infinite anche dalle timeline sui social network di molti. Non appena la stampa statunitense smette di parlarne, il caso esce dalle pagine di Esteri di quasi tutti i giornali del mondo. Ma le proteste non si sono fermate, in realtà: in molte città, tra cui appunto Portland, siamo oltre i cinquanta giorni consecutivi di manifestazioni. Nonostante si tratti della più grande sollevazione popolare su territorio statunitense dall’assassinio di Martin Luther King, media e pubblico sembrano essersi semplicemente stufati.

In questo modo, però, con meno controllo da parte dell’opinione pubblica, le polizie locali e poi l’amministrazione Trump hanno potuto usare, contro le proteste, metodi sempre più violenti, arrivando a violare sistematicamente i diritti umani, notte dopo notte. 

Ora, la situazione è così grave che Michael Barnett, di Police violence at a Glance, arriva a chiedersi se sia necessario un intervento delle Nazioni Unite per proteggere il popolo statunitense dall’amministrazione Trump. Portland era il posto perfetto dove provare a vedere quanto si poteva tirare la corda: la repressione della polizia era stata particolarmente violenta fin dall’inizio, e il disinteresse generale era tale che da quando sono arrivati gli agenti federali a quando la stampa ha iniziato a parlarne sono passati diversi giorni.

Per capire quanto si è aggravata la situazione: un mese e mezzo fa, il 6 giugno, le violenze di polizia a Portland erano una novità ancora così scandalosa che il sindaco Wheeler stava valutando se ordinare la messa al bando completa delle armi chimiche — che era diventata poi solo un’indicazione di limitarne l’uso. Oggi non solo l’uso di gas lacrimogeno in quantità ingenti fa parte della quotidianità, ma polizia e agenti federali usano spray urticanti e regolarmente aprono il fuoco usando proiettili non letali contro la folla.

La stampa, nel frattempo, si è svegliata, ed è diventato normale leggere articoli che si chiedono se il presidente degli Stati Uniti sta, o meno, infrangendo la Costituzione. Ma la situazione è scivolata troppo verso la repressione indiscriminata, ed è difficile immaginare una conclusione non violenta, che non sia l’interruzione delle proteste. L’altro ieri su Fox News il segretario pro tempore del Dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti — che si chiama davvero Chad Wolf, non è un nome da forum — parlava candidamente di “arresti proattivi” dei manifestanti, dicendo che in pratica gli agenti federali erano stati costretti alla repressione violenta perché la polizia non stava facendo abbastanza. (Questa polizia non starebbe facendo abbastanza per fermare le proteste.) Ieri Wolf ha rincarato la dose, dichiarando che gli agenti “non faranno un passo indietro.” 

La pandemia negli Stati Uniti sta bruciando con particolare violenza (anche se non per causa delle proteste), e questo sicuramente ha contribuito alla “distrazione” della stampa, della politica e della comunità internazionale. Ma non c’è solo questo: permettersi di ignorare le proteste è in sé una forma di privilegio. . Così si spiega anche la piega morbosa che ha preso la copertura giornalistica “residuale” delle manifestazioni: per esempio, è stata data molta attenzione alle “mamme di Portland,” mettendo in ombra l’attivismo di tantissime giovani madri afroamericane, che sono state presenti nelle proteste per cinquanta giorni prima dell’arrivo delle “mumtifa.” 

In secondo luogo, le proteste si sono progressivamente allontanate dall’alveo dei democratici — ieri le mamme di Portland cantavano “all cops are bastards,” e si proteggevano dietro uno scudo con scritto “no war but class war” — lasciando gli attivisti senza interlocutori “istituzionali.” In un sistema politico rigidamente bipolare, gli attivisti hanno alleati che vogliono difendere il loro diritto di protestare, ma di fatto non hanno organizzazioni politiche rilevanti e media mainstream che condividano la loro battaglia.

Grazie a questa discontinuità, Trump può arrivare ora molto vicino al suo obiettivo di “dominare” le proteste. Avendo fatto finta di non vedere i pestaggi dei violinisti alle veglie per Elijah McClain, la violenza razzista della polizia di New York, e le aggressioni insensate giustificate per proteggere le statue brutte si è lasciato lo spazio politico per una graduale ma certa erosione dei diritti umani in quella che, a volte, è ancora ricordata come la più grande “democrazia” occidentale. Così, nel pieno del più grande movimento di protesta degli ultimi cinquant’anni, contro gli abusi di polizia, le “forze dell’ordine” sono diventate ancora più violente.

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