La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disposizione che vieta l’iscrizione all’anagrafe degli stranieri richiedenti asilo, introdotta con il primo dei due Decreti sicurezza.
Il provvedimento era accusato da subito di essere non solo inutile, ma del tutto controproducente: impedendo ai migranti di accedere a una parte importante del funzionamento dello stato italiano, non faceva altro che aumentare l’ingiustizia e spingere persone svantaggiate ancora più ai margini della società. Chiaro: controproducente se si vuole governare meglio un paese, ottimo invece se l’obiettivo è alzare sempre di più la tensione sociale per i propri scopi politici.
La Consulta ha ritenuto che la norma violasse l’articolo 3 della Costituzione sotto due profili: “Per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti.” La sentenza della corte deve essere ancora depositata.
Prima della Consulta, numerosi tribunali ordinari avevano riconosciuto il diritto dei richiedenti asilo all’iscrizione anagrafica, con solo tre casi di rigetto e diversi rinvii ai giudici costituzionali — da cui, appunto, la sentenza di ieri. Per questo, molti sindaci nel corso degli ultimi due anni si erano già “ribellati” alle disposizioni del Dl 113/2018: per esempio il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che ieri ha commentato: “Matteo Salvini come Ministro è per fortuna un brutto ricordo ma quei decreti sicurezza sono ancora un incubo che interroga e mette in mora la nuova maggioranza e il Governo Conte.” Molti, ma non tutti — la giunta milanese guidata da Beppe Sala, ad esempio, non si è mai direttamente esposta contro i decreti sicurezza come quella palermitana.
È interessante infatti notare che la Consulta è arrivata dove la politica finora ha fallito — o meglio, dove la maggioranza giallo-rossa, nonostante mesi di promesse, non è ancora riuscita a intervenire. Proprio ieri si sarebbe dovuto tenere l’ennesimo incontro al Viminale per discutere delle modifiche ai decreti, ma è stato rinviato a martedì prossimo, ufficialmente per “lavori in corso alla Camera.” Sui contenuti, a quanto pare, è stato trovato un accordo, ma le modifiche non vedranno la luce prima di settembre. L’inazione della politica è ancora più disarmante se si pensa che non è la prima volta che la Consulta si esprime sui decreti salviniani facendone notare le criticità. Nel giugno dell’anno scorso aveva segnalato ad esempio come il provvedimento estendesse troppo l’autorità dei prefetti a scapito degli enti locali, nell’ambito ad esempio della creazione di cosiddette “zone rosse antispaccio,” o come si vogliono chiamare simili misure di semi-apartheid.
Salvini naturalmente se l’è presa con i “giudici che fanno politica,” ma c’è poco da esultare: anche se depotenziati di una delle loro norme più odiose — già comunque largamente inapplicata — i decreti sicurezza sono ancora indisturbati al loro posto, e continuano a produrre danni per migliaia di persone. Per esempio rendendo più difficile ottenere la cittadinanza: i tempi di risposta alla domanda sono passate da due a quattro anni, costringendo molti ragazzi neo-italiani a un limbo burocratico senza nessun motivo apparente se non l’ideologia razzista che guidava il precedente governo — e che sembra tenere in ostaggio quello attuale, espresso da un partito, il Pd, che addirittura metteva in programma tra le proprie priorità l’approvazione dello Ius soli.