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Ultras, l’esordio cinematografico di Francesco Lettieri, doveva uscire nei cinema per tre giorni. Ma con la chiusura delle sale dovuta all’emergenza del nuovo coronavirus, dal 20 marzo è disponibile solo su Netflix. E forse è meglio così.

Francesco Lettieri è senza dubbio uno dei più talentuosi autori di videoclip musicali degli ultimi anni. La sua mano, perfettamente riconoscibile, ha scandito l’ascesa dei maggiori fenomeni musicali di quella che un tempo chiamavamo scena indie (o itpop): Motta, Giorgio Poi, Giovanni Truppi, ma soprattutto Calcutta e Liberato. È proprio insieme a questi due ultimi nomi che Lettieri ha basato molto del suo hype e della sua popolarità, costruendo con loro un vero e proprio sodalizio e affinando una tecnica e un insieme di inquadrature ormai chiaramente riconducibile a lui. Quello con Liberato poi è un connubio quasi inscindibile in cui il lavoro dell’uno travalica l’arte dell’altro. Oggi infatti è quasi impensabile immaginarsi le creazioni del primo senza le canzoni del cantante misterioso. E infatti anche per la prima prova alla regia di un lungometraggio Lettieri si è affidato alla colonna sono di Liberato, che ha fatto a tutti gli effetti da traino mediatico portando il regista partenopeo — e il suo primo film — all’attenzione del grande pubblico.

Ultras però, come si può facilmente intuire, non c’entra nulla con Liberato e racconta invece la storia di un gruppo di tifosi della curva del Napoli. Il film in particolare ruota intorno al personaggio del Moicano (interpretato da Aniello Arena ndr), ultras della vecchia guardia soggetto al daspo, e delle persone che ruotano intorno alla sua vita, gli altri Apache: Angelo, giovane tifoso il cui fratello intuiamo essere morto in modo tragico e legato in qualche modo a Sandro (il Moicano ndr), Terry, la ragazza di cui il Moicano si innamora, e due gruppi ultras che si fronteggiano e attraverso i quali si vorrebbe rappresentare lo scontro generazionale tra le tradizioni e gli usi della vecchia tifoseria e l’intraprendenza irrispettosa dei più giovani. Le vite di questi personaggi si intrecciano intorno al tessuto sociale che li sorregge fatto di espedienti, violenza e calcio. Ma lo sport è assente, il calcio non viene praticamente mai citato e questo è forse l’elemento più interessante — apparentemente illogico ma veritiero — del racconto. Il rapporto con gli altri personaggi è invece scandito da scene che lasciano più spazio al non detto che a un reale ciclo narrativo di evoluzione dei personaggi, dei quali sappiamo molto poco e che al di fuori di Angelo non “maturano” mai nel corso del film. Gli ingredienti per un buon film insomma sembrano esserci tutti. Lettieri, che come sappiamo è originario di quei luoghi, cerca di raccontare una storia che conosce bene, studiata e vissuta in prima persona — anche se da lontano. Oltretutto il regista in qualche modo ha già raccontato personaggi affini a quelli del film con i videoclip di Liberato e il lungo piano sequenza iniziale che segue di spalle il protagonista ricongiunge il film a quel percorso e fa ben sperare sulla riuscita dell’opera.

Quello che segue però è un film che delude le aspettative e si pone a metà strada senza mai calcare la mano o imboccare realmente un’identità precisa. I personaggi e la storia sono deboli nella scrittura. La forza della fotografia, potente nei videoclip, in Ultras appassisce venendo meno. Intendiamoci, parliamo di due mondi vicini ma non assimilabili. Prendiamo il già citato Liberato, il corto di presentazione del disco è un piccolo capolavoro per fotografia, costumi, immagini. Ma è anche estremamente citazionista. E se proprio intorno al cantante mascherato Lettieri ha saputo creare un colore e una forza espressiva definita, qui l’esercizio imposto su se stesso cade. O meglio, è meno evidente, meno personale. Il tema degli Ultras, ad esempio, viene raccontato senza un livello di denuncia o di ruvida oggettività, immedesimandosi nei personaggi che risultano quasi un escamotage narrativo. Napoli stessa, seppur molto presente, non fa sentire la sua voce. Il film potrebbe essere identico se girato nella curva del Torino o del Milan o della Lazio? Ovviamente no, ma il contesto in cui è calato il film non dà la forza, quella melanconia intrisa di vita che, forse anche sbagliando, qualcuno si sarebbe aspettato. È una scelta, quella di Lettieri, di muoversi trasversalmente tra i suoi personaggi senza azzardare, senza rendere macchietta nessuno. Ma per forza di cose poi macchietta in qualche modo lo si diventa se non si riesce a dar loro un’identità sufficientemente forte, tale da giustificare il contesto. In questo modo il regista perde la sua mano, rinuncia a completare uno stile, manca il gradino successivo, per quanto pericoloso potesse essere parlare di Ultras a un pubblico ormai abituato a Gomorra e alla sua violenza. La stessa colonna sonora, molto bella anche negli inediti, non crea con la pellicola quel tutt’uno sperato. Spesso si ha quasi l’impressione che venga appiccicata sopra le scene perché dovuto. E il finale, per nulla sorprendente, troppo veloce, quasi buttato lì, concede poco all’emozione, prima che finisca sembra già visto — e il film non dura nemmeno così poco.

È come se le vite di queste persone non facessero altro che scorrere, scontrarsi e disperdersi. Può essere un approccio cercato — e voluto — ma senza dubbio lascia lo spettatore distante.

Ultras insomma pecca di carattere. È un film che si fa vedere volentieri ma che non lascia un segno. Il passaggio dal formato breve al grande schermo — tv in questo caso — non è scontato né facile e Lettieri forse paga tanto le aspettative, il fatto che sia “quello dei videoclip di Liberato.” Ma la domanda che uno si fa alla fine del film è: se Ultras fosse l’opera prima di un regista emergente verrebbe apprezzato poiché privo di aspettative o brutalmente bocciato, senza le attenuanti dell’avere un talento e un passato dietro la macchina da presa?