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in copertina: foto via Facebook. All’interno, foto di Rosita Celorio.

Abbiamo intervistato Selay Ghaffar, portavoce del primo partito laico dell’Afghanistan e attivista per i diritti delle donne, in un paese ancora devastato dalla guerra iniziata dagli Stati Uniti 18 anni fa.

Determinati. Gli occhi di Selay Ghaffar, attivista politica e portavoce del primo e unico partito laico dell’Afghanistan, Hambastagi, il Partito della solidarietà, sembrano mossi da una voglia di rivalsa che si scatena come un fiume in piena non appena la sua voce inizia a diffondersi nella stanza in cui la incontriamo. Protagonista — insieme ad altre due donne — del documentario I am The Revolution di Benedetta Argentieri, Selay ha alle spalle una di quelle storie che parlano di ingiustizia, di persecuzioni e di lotta a un sistema patriarcale che affonda le proprie radici nel fondamentalismo religioso e nel tentativo strumentale, da parte dell’occidente, di sfruttarlo per assoggettare i popoli alle proprie politiche economiche.

Classe 1983, figlia di intellettuali scomodi per l’autoritarismo religioso dei talebani e rifugiata insieme alla famiglia a soli tre mesi, Ghaffar ha vissuto molti anni tra Iran e Pakistan prima di ritornare nel proprio paese di origine, dove tuttora combatte per i diritti e la protezione delle donne, per l’educazione e l’assistenza sanitaria gratuita e inclusiva, e per diffondere narrazioni che smuovano nel cuore degli afghani desideri di autodeterminazione e indipendenza economica, sociale e culturale. L’attivista ha sempre cercato di utilizzare letteratura e scienza come strumenti per l’emancipazione delle donne, fin dalla militanza nell’Hawca, Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan, e dalle attività di resistenza nei campi profughi pakistani. 

Il documentario di Argentieri descrive una ragazza consapevole del fatto che le donne non devono fare la rivoluzione, le donne devono essere la rivoluzione. Nelle case, per le strade, nei luoghi della formazione e nei palazzi delle istituzioni, Selay si toglie il velo e cammina a testa alta tra uomini che la denigrano, la insultano, la minacciano. Uomini che hanno paura di lei, consapevoli che qualcosa sta cambiando, che la consapevolezza non tarderà ad arrivare, che il futuro e la democrazia hanno il volto di una donna.

Cogliamo l’occasione per parlare con lei durante un meeting ristretto con attivisti e militanti politici organizzato a Palazzo Marino dal Cisda, Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane.

“La situazione nel mio paese è ancora molto grave,” spiega Ghaffar. “Negli ultimi decenni il mio popolo ha vissuto lunghissimi periodi di guerra e regimi oppressivi, tutti fattori che hanno contribuito a smorzare qualunque processo di autodeterminazione. Viviamo costantemente stretti in una morsa tra l’occupazione militare e il fondamentalismo islamico. Siamo vittime delle strategie economiche e politiche che hanno coinvolto gli Stati Uniti insieme ai talebani prima e ad altri gruppi estremisti oggi. Gli americani hanno collaborato con componenti di Al Qaeda per anni, fornendo loro armamenti e addestramento militare, e sono responsabili, direttamente o indirettamente, della nascita di fazioni jihadiste tra le più sanguinarie. Quando hanno invaso l’Afghanistan, nel 2001, hanno usato il fatto che i talebani fossero misogini e brutali come scusa, ma in realtà c’erano sotto interessi economici enormi e obiettivi ben precisi. Con il loro arrivo hanno naturalizzato la guerra, rendendo il mio paese il più insicuro al mondo, specialmente per le donne, e gravando sull’emancipazione femminile e delle frange più deboli della società. Per non parlare delle cifre di un conflitto che si protrae da 18 anni, nonostante dovesse durare soltanto poche settimane. Siamo sull’ordine dei 400mila morti, la grande maggioranza per mano di militari e droni da guerra”. 

Ma la situazione non presenta enormi criticità solo dal punto di vista delle vittime. La società civile arranca nella miseria e sembra non esserci margine per una svolta culturale reale. “La propaganda è tutta nelle mani degli americani e dei loro alleati, e nasconde le statistiche che ci vedono ultimi per sicurezza, educazione ed emancipazione,” continua Selay. “La condizione delle donne è particolarmente emblematica. Solo il 16% di loro risulta aver ricevuto un’educazione di base e il piano di promozione del loro apprendimento scolastico, per cui sono stati stanziati oltre 200 milioni di dollari in tre anni, ha aiutato appena cinque donne, invece delle 35 mila di cui si era parlato. La maggior parte dei soldi e dei finanziamenti sono finiti, come al solito, nelle tasche delle mogli dei signori della guerra e dei politici con cui gli Stati Uniti fanno affari. Non è un caso che io sia l’unica figura femminile del mio partito, e che le nostre attività ci vedano a stretto contatto con le poche realtà sociali che agiscono in ambito di diritti umani e gender equality. C’è davvero bisogno di una rivoluzione culturale radicale”. La corruzione sembra talmente radicata nelle pratiche politiche che intravedere una svolta è quasi impossibile. Nonostante lo scenario desolante, però, gli occhi di Selay sembrano non farsi abbattere e guardano decisi un futuro che è in ritardo da troppo tempo.

“Tutto il denaro arrivato negli ultimi vent’anni è andato nelle mani dei signori della guerra, della mafia,” racconta. “Non se ne parla mai, ma noi abbiamo un serio problema con la mafia.”

“Gestisce un consistente traffico di droga con il sostanziale aiuto delle istituzioni a cui fanno comodo un popolo dipendente, schiavo, drogato e analfabeta. L’obiettivo è non far prendere loro la giusta consapevolezza dello stato di miseria in cui si trovano. Si dice anche che il commercio di droga tenga in piedi la nostra economia ma non è vero, noi non abbiamo bisogno di papavero da eroina, abbiamo bisogno di cultura. Gli americani intanto cercano di distogliere la nostra attenzione, vogliono mantenere le persone occupate e credono che resteremo per sempre ad aspettare una pace che non verrà mai se non ci mobilitiamo tutti insieme. Ma poi, quale pace? La pace democratica che hanno voluto portarci qui per affamarci? Quella delle elezioni pilotate in cui i candidati sono scelti ad hoc dalle potenze straniere? In parlamento abbiamo persone che hanno le mani sporche del sangue della povera gente morta in questa infame guerra, persone che noi non perdoneremo mai, ed è anche per questo che abbiamo deciso di non presentarci alle ultime elezioni, nonostante contiamo più di 40 mila tra iscritti e sostenitori”.

A detta di Selay, tutto il mondo è complice di questo smisurato numero di ingiustizie. L’ONU, Unione Europea, l’Italia: in questo sistema avvelenato in cui si guarda dall’altra parte a meno che non ci sia da accumulare profitto, ci sono dentro tutti. “Noi ci battiamo tutti i giorni per un cambiamento che deve arrivare dal basso, deve nascere nelle case della gente comune, nelle coscienze di un popolo che nella sua storia ha sempre dimostrato di sapere cosa significa la tenacia e il coraggio. Abbiamo bisogno di combattere il conservatorismo della nostra classe politica. Abbiamo bisogno di tornare a casa e dire ai nostri figli: non siamo soli, nel mondo c’è tanta gente che ci aiuterà.”