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Per secoli i capelli sono stati un elemento di discriminazione quanto il colore della pelle. Oggi, grazie a internet, il Natural Hair Movement è tornato alla ribalta. Ne abbiamo parlato con Evelyne Sarah Afaawua, fondatrice del primo blog afro-italiano sull’argomento

Ci piace pettinarli, tingerli, intrecciarli. Li leghiamo, arricciamo, stiriamo, a volte semplicemente li ignoriamo. Comunque sia, i capelli hanno un ruolo importante dal punto di vista estetico e nel definire la nostra identità. Eppure, quando i capelli sono legati inscindibilmente a questioni storiche, razziali, di genere e culturali, passano dall’essere un semplice dettaglio del nostro modo di apparire a qualcosa di ben più complesso e importante.

Nel 2019 è uscito su Netflix il film ​Nappily Ever After​: per la prima volta una piattaforma di intrattenimento mainstream portava in primo piano il complicato rapporto che la popolazione nera ha con i capelli. Nonostante il format sia leggero e fruibile, dal film emerge chiaramente come la scelta tra lisciare i propri capelli con l’aiuto di sostanze chimiche o tenerli “al naturale” sia, per le donne e per gli uomini di origini africane, molto più che una semplice questione di stile.

https://www.youtube.com/watch?v=3xh9XFxo2Hg

Il valore dei capelli, in molte culture africane, si intreccia con la travagliata e dolorosa storia dei loro popoli. Una storia fatta anche di colonialismo, schiavitù, migrazioni e razzismo. Nel libro Hair Story: Untangling the Roots of Black Hair in America Ayana Byrd e Lori Tharps scelgono di ripercorrerla proprio a partire dai diversi significati che i capelli e le acconciature afro hanno assunto nel corso dei secoli. 

In epoca pre-coloniale, i capelli erano fonte di orgoglio per la popolazione africana e venivano pettinati in modo estremamente ricercato grazie all’uso sapiente di utensili e sostanze apposite. All’inizio del sedicesimo secolo, però, quando la tratta degli schiavi da parte dei conquistatori occidentali assume una dimensione di massa, le cose  cambiano. Nel giro di un centinaio di anni, in America e negli altri possedimenti coloniali occidentali, circa venti milioni di persone vengono brutalmente private della libertà. Secondo le autrici, il processo di spersonalizzazione e sradicamento culturale subito dalla popolazione nera ha riguardato anche i capelli, rasati a zero dagli schiavisti e denigrati dagli occidentali. Nelle piantagioni, le donne coprivano le proprie chiome con dei fazzoletti, mentre gli uomini li tenevano corti il più possibile: in ogni caso, ciò che contava era che fossero poco visibili. 

Secondo Orlando Patterson, autore di Slavery and Social Death, in quel periodo in Nord America e nei Caraibi “il particolare tipo di capelli era diventato rapidamente il vero distintivo simbolico della schiavitù,” ancor più della pelle. ​Secondo la tradizione il termine “nappy,” che in inglese viene usato per indicare il riccio sottile e crespo tipico dei capelli afro, nasce proprio in questo periodo nelle piantagioni. Viene chiamato “nap,” infatti, il ciuffo di cotone che si forma sulla pianta prima della raccolta. Per anni il termine ha avuto valenza denigratoria per poi essere rivendicato e usato con accezione positiva, ma solo in anni recenti.

A metà del diciannovesimo secolo, con l’abolizione della schiavitù, gli afro-americani si trovano a doversi inserire in una società che fino a poco prima li aveva privati di ogni diritto. Ecco quindi che i capelli diventano un mezzo per tentare di integrarsi, allontanandosi il più possibile dall’immaginario dello schiavo, e abbracciando invece i canoni di bellezza occidentali proposti come gli unici validi e degni di rispetto. È proprio in questi anni che inizia a diffondersi l’idea che esistano “good hair,” ovvero capelli “buoni” in quanto stirati e lisci, in opposizione ai “bad hair,” capelli “cattivi” lasciati al naturale e dunque indicatori di trascuratezza. Si diffondono espedienti di ogni tipo per tentare di trasformare i ricci afro nelle acconciature richieste dalla moda dell’epoca: pettini arroventati, ferri incandescenti e prodotti chimici liscianti come la famosa “M​organ’s Hair Refining Cream” ideata dall’imprenditore Garrett Morgan all’inizio del Novecento. Queste pratiche, oltre ad essere dannose per i capelli, esponevano la popolazione nera, e in particolare le donne, a ustioni e irritazioni dovute agli agenti chimici.

Inizia a diffondersi l’idea che esistano “good hair,” ovvero capelli “buoni” in quanto stirati e lisci, in opposizione ai “bad hair,” capelli “cattivi” lasciati al naturale e dunque indicatori di trascuratezza

Bisogna aspettare fino agli anni Sessanta perché la situazione negli Stati Uniti inizi a cambiare. Con la crescita dell’attivismo afro-americano per i diritti civili, il movimento Black Power e la rivendicazione della cultura nera da parte di gruppi come il Black Panther Party, nasce anche il cosiddetto Natural Hair Movement. I capelli diventano un’occasione per riappropriarsi delle proprie origini: scegliere di portare la chioma afro al naturale diventa un modo per riprendere contatto con i propri antenati, affermare la propria identità, la propria storia e le proprie rivendicazioni. Le creme liscianti, iniziano ad essere considerate strumenti di oppressione che alimentano la vergogna verso l’estetica e la cultura nera. Si diffonde in questi anni la moda “Afro,” ossia la famosa acconciatura dove i capelli ricci al naturale incorniciano il viso, principalmente associata nell’immaginario pop all’attivista e femminista Angela Davis. 

Questa fase ha però vita breve. Già ​negli anni Ottanta, infatti, il Natural Hair Movement va sfumando e la moda dell’Afro perde popolarità, rimanendo nell’immaginario collettivo come un retaggio delle tormentate battaglie politiche dei decenni precedenti. A beneficiarne è il sistema industriale che ruota attorno alla cultura dei “good hair” (ben descritto nel ​documentario realizzato nel 2009 da Chris Rock). Infatti, tra prodotti chimici liscianti, extensions e un mercato internazionale da milioni di dollari per la compravendita di capelli e la realizzazione di parrucche, si è creato un apparato enorme, in certi casi di dubbia etica — e raramente in mano a imprenditori afro-americani — ma sicuramente molto redditizio.

Oggi, grazie a internet e ai social media, si è tornati a parlare di Natural Hair Movement. Sono moltissimi i canali YouTube, i blog e le pagine Instagram che, oltre a promuovere la scelta di portare i propri capelli afro al naturale, forniscono consigli pratici su come trattarli, quali prodotti usare per non danneggiarli e che acconciature sperimentare. Negli Stati Uniti il movimento sembra più vivo che mai e molti personaggi pubblici, come la cantante Solange Knowles, la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie o l’attrice Lupita Nyong’o, lo sostengono apertamente, sfoggiando i propri capelli al naturale. Lo scorso luglio la California è diventata il primo Stato ad approvare una legge che ​proibisce ogni forma di discriminazione legata ai capelli e alle acconciature afro: è il segno che qualcosa sta cambiando, anche a livello istituzionale.

In Italia, invece, la situazione è molto diversa. Ne abbiamo discusso con Evelyne Sarah Afaawua, fondatrice del primo blog sul Natural Hair Movement made in Italy. Evelyne è italiana di origine ghanese e con i capelli ha sempre amato giocare, esprimendo la sua creatività: “​Da piccola mi stiravo i capelli, ho iniziato a farlo presto, intorno ai tre, quattro anni. Oggi direi che da bambina avevo un rapporto disastroso con i miei capelli, ma in realtà all’epoca era normale.”​ Dopo anni passati a lisciarsi i capelli a fasi alterne (“li stiravo, poi li tagliavo e facevo le treccine”​), a 24 anni Evelyne inizia un percorso personale che la porta ad acquisire la consapevolezza della propria duplice identità di donna italiana e ghanese. “​Osservando il mio corpo ho capito che volevo smettere di alterarlo e dare finalmente spazio alla mia identità ghanese. Così, ho deciso di fare la transizione ai capelli naturali.“

“All’inizio non avevo il coraggio di tagliarli quindi vedevo crescere i capelli ricci alla radice, ma le lunghezze erano ancora lisce. Allo stesso tempo, però, mi accorgevo che i capelli crescevano più forti e più velocemente, così, dopo circa un anno, mi sono detta: perché no? e ho deciso di tagliarli​.” 

Da allora Evelyne porta i suoi capelli naturali, ma il suo percorso non si è limitato a una presa di coscienza personale. Nel 2014 ha deciso di aprire la pagina Facebook Afro-italian Nappy Girls, una community di ragazze afro-italiane creata allo scopo di scambiarsi informazioni e consigli sui capelli e identità: “​Ero alla ricerca di informazioni e raramente le trovavo in italiano. Mi sono chiesta se questo argomento interessasse solo me o ci fossero altre ragazze là fuori che avessero riscoperto la loro identità africana e cercassero consigli sulla cura dei ricci. C’era la voglia di creare un centro di aggregazione​.” La pagina Facebook in poco tempo ha avuto molto successo, tanto da attirare l’attenzione del regista Massimo Coppola che otto mesi dopo ha realizzato un cortometraggio in collaborazione con La27Ora e il Corriere della Sera​. Da allora il progetto è cresciuto, cambiando il nome in ​Nappytalia​; oggi è un blog, ma anche un sito e-commerce di prodotti naturali per la cura dei capelli afro. Nappytalia ha segnato la nascita del Natural Hair Movement in Italia: “​All’inizio non ero a conoscenza del movimento, ma durante il mio percorso personale, durato quasi due anni, ho fatto molta ricerca: gestire i capelli al naturale senza averlo mai fatto era difficilissimo. Leggendo i blog afro-americani, sono entrata in contatto con il Natural Hair Movement e ho cercato di estrapolarne gli aspetti applicabili al contesto afro-italiano​.” Il movimento infatti ha le sue radici negli Stati Uniti e dunque, per quanto l’idea di base possa essere traslata in altri contesti, non si possono ignorare le differenze culturali. 

Evelyne Sarah Afaawua riceve il premio Digital African Woman 2016 al Parlamento europeo

“​Il movimento italiano è giovane, sopratutto rispetto al corrispettivo afro-americano, e nasce dall’esperienza e dal contributo delle seconde generazioni di afro-italiani: i capelli sono diventati uno strumento per urlare la nostra esistenza e identità. Il contesto italiano non può essere assimilato a quello americano: noi abbiamo chiare le nostre origini, mentre per gli afro-americani può risultare più complesso ricostruire la loro storia familiare fino a risalire agli antenati africani​.” Secondo Evelyne c’è anche un problema di minore visibilità delle persone di origine africana in Italia: “Gli Stati Uniti sono da sempre un mix di culture: c’è molta mescolanza e molta rappresentanza. In Italia si tende ancora ad associare la persona di colore allo straniero: spesso mi chiedono da dove vengo o perché parlo così bene l’italiano! Questa minore integrazione rende più difficile reperire modelli esterni in cui rivedersi, anche dal punto di vista estetico​.” Il movimento Italiano, dunque, è ancora agli inizi, ma ha voglia di crescere, attingendo alla cultura afro-italiana: “​Non è mai stato un mio spazio puramente personale, ho sempre voluto che si creasse una comunità: abbiamo bisogno di un pluralità di voci.”


In copertina: un graffito raffigurante Angela Davis, cc thierry ehrmann su Flickr