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in copertina elaborazione di una foto dal profilo Facebook di Şanışer

“Susamam” è un brano di oltre quattordici minuti a cui hanno collaborato venti artisti turchi che contiene critiche esplicite al governo di Recep Tayyip Erdoğan. 

La canzone, fuori dal 6 settembre, è accompagnata da un video pubblicato sul canale YouTube di Şanışer, uno dei rapper più popolari in Turchia, e ha raggiunto in dodici ore oltre 2 milioni di visualizzazioni — mentre ne parliamo superano le 20 milioni —, mentre su Spotify il brano è ormai lanciato verso i 5 milioni di ascolti. Nelle ore successive alla pubblicazione l’hashtag #SUSAMAM è stato tra i più cliccati al mondo con oltre 300 mila messaggi e lo stesso Şanışer, così come altri artisti coinvolti nel progetto, sono stati tra i nomi più cercati online nelle ore che hanno seguito l’uscita del video. 

“Susamam” parla di inquinamento, femminicidio, disuguaglianze sociali, violenza sugli animali, ma soprattutto affronta apertamente il problema della libertà di espressione in Turchia, accusando direttamente il governo guidato da Erdoğan. È proprio Şanışer a parlare del problema nella sua strofa rappando: “Sono troppo spaventato per inviare un tweet, sono arrivato ad aver paura della polizia del mio paese.”

 

Il brano si collega ai tentativi passati di accrescere l’attenzione verso la riduzione sempre più marcata della libertà di espressione in Turchia e amplifica il clima di insicurezza in cui vive quotidianamente la scena artistica turca. Tra i casi più recenti ed eclatanti di persecuzione va ricordato quello di Zuhal Olcay. Lo scorso luglio la cantante è stata condannata a trascorrere tre giorni in prigione con l’accusa di aver insultato, nel 2016 durante un concerto, il presidente Erdoğan. In seguito è stata rilasciata su libertà vigilata. Ma le minacce e i tentativi intimidatori non hanno mai fermato del tutto il fermento creativo del paese, semmai ne hanno alimentato lo slancio provocatorio. L’accusa lanciata attraverso “Susamam” al “dittatore turco,” così è stato definito Erdoğan da Thomas Baumgaertel, l’artista che nel 2018 ha rappresentato il presidente con una banana nel sedere, segue di poche ore l’arresto di Canan Kaftancioglu, dirigente del Chp — principale partito di opposizione in Turchia — condannata a inizio settembre a oltre nove anni di prigione per aver commesso reati che vanno dalla diffamazione al presidente della Repubblica all’aver “umiliato apertamente la nazione” — a quanto pare in Turchia è reato.

La repressione, inaspritasi negli ultimi mesi nel disinteresse più o meno diffuso della comunità internazionale, cerca di anestetizzare il dissenso aggravando il senso di timore avvertito da chi promuove idee progressiste, o comunque in contrasto con la politica oscurantista e conservatrice del governo attuale. Un paio di anni fa sulle pagine del Guardian l’artista Ekin Onat denunciava il clima di calma “solo superficiale” che aleggia negli ultimi anni per le vie di Istanbul. È importante ricordare che, a seguito del mancato colpo di stato dell’estate 2016, 130 mila dissidenti assunti nell’amministrazione pubblica (tra cui impiegati, insegnanti e funzionari statali) sono stati licenziati, più di 95 mila persone sono state sottoposte a fermo e 47000 sono state arrestate. Ma l’epurazione ha coinvolto anche 7000 accademici, 4000 tra giudici e pubblici ministeri, 149 organi di stampa, chiusi da un giorno all’altro, e 231 giornalisti, imprigionati perché apertamente in contrasto con la deriva autoritaria del paese. 

La campagna governativa turca contro la libertà di pensiero prosegue in questi giorni attaccando il genere musicale più immediato e pericoloso per il governo di Erdoğan: il rap. Poche ore dopo la pubblicazione del brano è arrivata la risposta del governo attraverso il vicepresidente dell’AK Parti, Hamza Dag: “l’arte non dovrebbe essere uno strumento di provocazione e manipolazione politica.” Sottotesto: fatevi gli affari vostri. A dargli supporto ci ha pensato anche il Yeni Safak, il principale organo di stampa filogovernativo, che ha parlato addirittura di una “produzione congiunta” con i terroristi curdi e la FETÖ, il movimento sociale di Gülen. 

Purtroppo, come abbiamo potuto osservare in passato, l’ostilità nei confronti del rap non è prerogativa esclusiva dei governi autoritari — Rajoy insegna — e fa quasi sempre parte di un progetto più ampio di silenziamento del dissenso. Almeno in questo caso, per fortuna, il tentativo sembra essere clamorosamente fallito.