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in copertina foto di FILT CGIL Genova, via Facebook

“Andremo avanti a oltranza, giorno per giorno, monitorando ogni tipo di merce e bloccando quelle sospette.” Abbiamo parlato con Rosario Carvelli, delegato FILT, delle proteste dei camalli di Genova contro l’imbarco di materiale bellico destinato al conflitto in Yemen.

Lunedì mattina i portuali di Genova hanno impedito che venisse caricata sul cargo saudita Bahri Yambu merce che sarebbe stata utilizzata nella guerra in Yemen. Nonostante le rassicurazioni delle istituzioni, la probabile presenza nel carico di un maxi generatore ha acuito i timori anche in prefettura, che infatti ha poi dato ragione ai lavoratori, trasferendo i materiali fuori dal porto. Con lo slogan “porti chiusi alle armi, porti aperti ai migranti”, la Filt Cgil Liguria ha indetto uno sciopero di tutti i portuali, di terra e di mare, impiegati in tutti i porti dove eventualmente potrebbe attraccare il cargo. Lo scopo è bloccare il contributo italiano alla guerra in Yemen, evitando che le forniture si spostino in porti più piccoli, dove sia per i lavoratori più difficile organizzarsi sul posto.

I lavoratori del porto di Genova hanno incrociato le braccia davanti alla guerra che, dal 2015, vede l’Arabia Saudita reprimere nel sangue le rivendicazioni di autodeterminazione promosse dai ribelli Houthi. I camalli di Genova si sono mobilitati per fermare la palese violazione dei trattati internazionali secondo i quali non è permesso vendere armi a uno Stato in guerra. I portuali liguri si sono appellati alla Costituzione, che ripudia la guerra, e chiedono che l’Italia non sia più complice di un conflitto che sta generando la più grave crisi umanitaria dei nostri tempi.

Ricerche tra le macerie dopo il bombardamento di Hajar Aukaish, 04/2015, foto CC Almigdad Mojalli/VOA

Secondo un report dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari dello scorso febbraio, la crisi umanitaria in Yemen è peggiorata ulteriormente nel corso dello scorso anno, e 24 milioni di persone — quasi l’80% della popolazione — ha bisogno di assistenza e protezione. Più di tre milioni hanno bisogno di trattamenti per grave malnutrizione, tra cui due milioni di bambini sotto i cinque anni. Le condizioni sanitarie sono così emergenziali da aver causato epidemia di malattie trasportate dall’acqua, in particolare di colera, che ha colpito centinaia di migliaia di persone.

La mobilitazione dei camalli non è estemporanea, e non ha nessuna intenzione di fermarsi a una singola azione di sciopero. “Sono ormai più di due anni che ci siamo accorti di cosa succede nel nostro porto e sono più di due anni che lo facciamo presente,” spiega Rosario Carvelli, delegato FILT, ramo trasporti della CGIL, e candidato alle elezioni europee per La Sinistra. “Finalmente abbiamo toccato le corde giuste all’interno della CGIL e siamo riusciti a chiudere i terminal alle armi. L’unico rammarico è che, se ci avessero dato ascolto tempo fa, l’Italia oggi non avrebbe sulla coscienza così tante vittime innocenti. Ci teniamo comunque a sottolineare che la nostra posizione è sempre stata chiara: il porto di Genova è chiuso ad ogni tipo di attrezzatura militare venduta a paesi in guerra.”

foto di FILT CGIL Genova, via Facebook

Una posizione netta ed estremamente chiara, che non ammette compromessi, neanche all’interno del mondo sindacale. “Lasciando stare la UIL, secondo la quale questo non era uno sciopero da fare, e la CISL, che non vuole immischiarsi in questioni che definisce ’politiche,’ noi chiediamo che il nostro sindacato prenda una posizione risoluta e ben definita sulla questione dei varchi e che si dimostri sensibile a certe tematiche,” dichiara il portuale. “Noi non ci tiriamo indietro, sappiamo bene cosa comporta una giornata di lotta. Ci sono compagni che da tempo si rifiutano di lavorare su navi come la Bahri Yanbu a altri che presidiano i varchi anche per tredici ore al freddo. Se la CGIL avesse rispetto per questi lavoratori applicherebbe subito lo statuto che parla chiaro e dice che il sindacato ripudia la guerra. Se ciò non accadesse siamo pronti a strappare le nostre tessere. Perché è questo che bisogna capire: qui non si tratta solo di tutelare i civili vittime di questa infame guerra, qui si parla di avere rispetto per chi dedica anima e corpo al lavoro sindacale. Ricordiamoci che i padroni del porto di Genova sono i lavoratori, non gli armatori.”

Questa vicenda appare ancora più importante se inserita in un dibattito pubblico che vede prevalere la retorica dei “porti chiusi” farla da padrona. “Dobbiamo abbattere questo concetto,” tuona Carvelli. “Bisogna ritagliarsi uno spazio culturale in cui sostenere che non possiamo chiudere i porti alle vittime dei conflitti che noi stessi contribuiamo a perpetrare. E anche se non avessimo l’appoggio dell’opinione pubblica, è importante che le istituzioni si impegnino a rispettare le clausole internazionali per le quali non si può promuovere la compravendita di armi con paesi in chiaro stato di guerra.”

I lavoratori portuali di Genova non hanno intenzione di arretrare eanzi, si organizzano  perché la sicurezza torni al centro delle lotte sindacali. “Crediamo fortemente che sia necessario impostare un coordinamento portuale italiano per tutelare i pochi privilegi che negli anni ci siamo guadagnati con tanta fatica,” continua il sindacalista. “In questi giorni abbiamo parlato con tanti compagni sparsi in tutta la penisola e ci siamo confrontati sul tema della sicurezza che non riguarda solo noi ma anche tutte quelle popolazioni a cui sono destinate le merci che transitano nei nostri porti. Il modello di monitoraggio costante promosso a Trieste, per esempio, è un modello virtuoso che dovremmo sposare tutti, altrimenti i tavoli di igiene e sicurezza che portiamo avanti risulterebbero inutili. Il porto è un posto pericoloso per i lavoratori e Genova ha già dato i suoi martiri. Non ne vogliamo altri in un’altra parte del mondo”.

Una posizione  che non ammette repliche e che ha spinto il Prefetto di Genova a dare il benestare affinché i generatori per droni militari che stavano per essere caricati sulla Bahri Yanbu, e le cui targhe indicavano il Lazio come luogo di produzione e l‘uso militare come scopo operativo, venissero allontanati dal terminal e dalla nave per essere stipati in un magazzino. “Per noi è stata una grande vittoria. Non era facile organizzare in soli due giorni il blocco di un turno e il fermo delle attività portuali,” conclude Carvelli. “Sappiamo che un’altra imbarcazione è in arrivo il 28 maggio e ci stiamo già organizzando sulle orme di quello che hanno fatto anche i compagni spagnoli con la Santander. Questo possiamo definirlo solo un punto di partenza da cui far partire una mobilitazione coesa e determinata. Andremo avanti a oltranza, giorno per giorno, monitorando ogni tipo di merce e bloccando quelle sospette. Le persone devono capire che quello del traffico di armi non è un problema solo dei portuali ma di tutta la città. I carri armati non passeranno.”