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Uno studio della storica Sara Caputo rivela che la marina britannica nel XVIII secolo non badava troppo alla nazionalità dei propri marinai: un esempio di come spesso la necessità abbatta le frontiere.

La libera circolazione delle persone è strategicamente importante anche nei contesti in cui ci si aspetterebbe il contrario. La differenza tra il modo in cui una persona si presenta, secondo la propria identità, e la specificità anagrafica imposta allo stesso soggetto dalle circostanze storiche e politiche è alla base di fenomeni tra i più diversi. In alcuni gruppi sociali la distinzione nazionale perde di senso, se c’è una minaccia alla sopravvivenza dello stato che li impiega

Sono questi i punti salienti di Alien Seamen in the British Navy, British Law, and the British State, C. 1793 – C. 1815 (I marinai stranieri nella marina, nella legge e nello stato britannico), un’originale indagine storica della studiosa italiana Sara Caputo, ricercatrice presso il Robinson College della University of Cambridge (UK). Lo studio ricostruisce le vicissitudini dei marinai imbarcati dalla marina militare britannica durante le guerre napoleoniche, aprendo scenari che fanno riflettere anche sul presente.

“Uno storico è sempre soggetto a due forze in tensione, che operano su una linea molto sottile. Una sta nel fatto che non si può sfuggire dal mondo presente; in questo senso, i nostri interessi e i nostri studi vengono sempre dalla realtà che ci circonda,” spiega Sara Caputo. “D’altro canto, lo storico deve sempre tenere separate le proprie idee dall’oggetto della ricerca.”

La cautela scientifica è esattamente quella che ci si aspetterebbe da una studiosa in organico presso una delle maggiori istituzioni scientifiche europee, ma il tema di questa ricerca stimola paralleli molto adatti a riflettere anche sulle vicende attuali, in un’Europa sempre più tormentata da questioni d’identità nazionale. “È un problema molto presente in un tipo di ricerca come questa, che può essere partita dalla mia esperienza personale di vivere in due paesi, e in parte anche dalla situazione politica attuale”.

Indagando sulla storiografia navale relativa al periodo delle guerre Napoleoniche, la studiosa si è accorta di un’incongruenza: “La marina è un elemento cruciale dell’identità britannica moderna, con l’idea che l’impero fu costruito interamente da coraggiosi esploratori e condottieri. La storiografia navale britannica usa spesso toni e riferimenti marcatamente nazionalistici: Nelson, Trafalgar, e così via.”

La battaglia di Trafalgar, illustrata da E.S. Hodgson

Nei documenti prodotti dall’ammiragliato e le memorie personali di ufficiali e marinai si trovano spesso notizie relative a “stranieri” imbarcati, ma nella storiografia si poteva leggere al massimo qualche pagina dedicata ai marinai statunitensi costretti a servire nella Royal Navy, o qualche notizia sui marinai di colore provenienti dall’Africa o dall’Oceano Indiano. Nessuno aveva mai curato uno studio organico sui marinai stranieri più in generale, a fronte di pubblicazioni regolari e approfondite su Nelson o di resoconti sulla battaglia di Trafalgar.

“C’era un buco enorme nella storiografia. Lacune nella letteratura scientifica come queste hanno il loro significato storico, ed è questo il motivo per cui ho deciso di approfondire questo tema.”

Per gli standard contemporanei, il Regno Unito del XVIII secolo non era un posto difficile dove emigrare. Gli stranieri non potevano possedere terre o accedere ai pubblici uffici, pagando anche maggiori imposizioni doganali se commercianti, ma non esistevano restrizioni sul movimento, la possibilità di prendere la residenza o di ereditare, o di potersi sposare. Anche in tempo di guerra non sussistevano ostacoli formali o sistematici all’ingresso o alla permanenza sul suolo britannico.

Nel periodo di cui parliamo, la Royal Navy impiegava dai 110.000 ai 140.000 uomini su oltre 300 navi da guerra. Non c’erano limiti all’assunzione di marinai stranieri, a differenza della marina mercantile. In quest’ultima, in tempo di pace, solo un quarto dell’equipaggio poteva essere straniero, un limite che in periodo bellico era esattamente invertito. La difficoltà stava nel procurare tutta la forza lavoro richiesta, che non poteva essere soddisfatta dai soli cittadini britannici – la Gran Bretagna contava allora 11 milioni di persone, con i 5 dell’Irlanda. La realtà era però già molto variegata, all’interno degli stessi confini nazionali.

È il settembre del 1811, e durante un pattugliamento nel Mare del Nord della HMS Nightingale, uno sloop di trenta metri dotato di diciotto bocche da fuoco, il marinaio Robert Ritchie si mette a scrivere sul suo diario. “È un totale voltagabbana,” scrive riferendosi al proprio compagno di mensa Camillo Corri, quattordicenne “volontario di prima classe” da poco imbarcato. “Nega di essere nato in Scozia, il che fa piacere agli inglesi, che sembrano grandemente disprezzare gli scozzesi; allo stesso modo egli rivendica l’onore di essere nato in Italia; ma, se non sbaglio, è nato a Edimburgo.”

“Ritchie non si era sbagliato,” scrive Sara Caputo. Camillo Corri era infatti figlio di un musicista italiano, Natale Corri (1765-1822), che si era stabilito con la sua famiglia a Edimburgo almeno dal 1792. Legalmente Corri era uno scozzese, dunque un britannico.

“Le persone spesso cambiano identità secondo la convenienza. Dal punto di vista dell’individuo questa oscillazione è ben risaputa: non è però così ovvia dal punto di vista dello stato, perché lo stato moderno è intrinsecamente fondato su definizioni ben chiare di appartenenza, fissate dalla legge.”

Durante tutto il XVIII secolo, e specialmente nel corso delle French Wars (1793-1815), la Royal Navy reclutava migliaia di stranieri. Di loro sappiamo molto poco, in genere solo il luogo di nascita, registrato sui libri mastri e sui libri paga dell’ammiragliato. La stessa identificazione di questi ultimi come un gruppo di “non-britannici” dipende dall’etichetta posta dall’amministrazione navale o dal suo linguaggio; in attesa di una necessaria verifica, una tale definizione può avere effetti paradossali. Un soggetto come Corri, britannico di nascita ma per altro verso “straniero” poteva facilmente passare da un ambito all’altro, per convenienza.

“La contraddizione che mi ha stimolato ad approfondire il tema è quando lo stesso stato sposta avanti e indietro i limiti a seconda di come gli conviene, mettendo in crisi la sua stessa legittimità.” Nell’Inghilterra del XVIII secolo la volontà politica e la convenienza economica di escludere gli stranieri erano relativamente basse. Il concetto stesso di “straniero”, come la ricerca mette in luce, era abbastanza variegato, se non vago.

Si poteva essere classificati come “stranieri” generici (foreign), come legalmente stranieri (alien), in senso sociale (migrant) o culturale (other), come ad esempio hanno evidenziato gli studiosi dell’immigrazione Jan Lucassen e Rinus Penninx, citati da Sara Caputo nella sua ricerca. La tentazione è sempre quella di associare lo straniero a qualcosa che arriva da fuori (newcomer), ma questo può essere riduttivo. Nella prima età moderna essere straniero non significava necessariamente arrivare da fuori, ma essere il risultato di un’estraneità religiosa, familiare, d’insediamento, tutti fattori indipendenti dalla provenienza, secondo le conclusioni di Simona Cerutti, direttrice della École des hautes études en sciences sociales di Parigi.

Un marinaio abile era una risorsa di estremo valore, e se voleva arruolarsi era il benvenuto — eccezion fatta, almeno in linea di principio, per i marinai provenienti dai paesi in guerra con la Gran Bretagna. Dopo due anni di servizio nella Royal Navy o nella marina mercantile in tempo di guerra un marinaio “straniero” doveva essere considerato come un nativo.

“Per gli stranieri era una scelta migratoria conveniente, perché spesso guadagnavano davvero più soldi che nel proprio paese, anche parlando di nazioni europee,” ha concluso Sara Caputo. La Royal Navy, simbolo della potenza britannica, valutava quindi prima le persone, poi il loro passaporto — che al tempo non esisteva ancora — per garantire innanzitutto la propria sopravvivenza.

Le società più progressiste cercano di comportarsi allo stesso modo: per esempio il Canada, che, pur essendo formalmente una monarchia costituzionale retta dalla sovrana inglese, ha scelto di tenere tutt’altra linea rispetto alla madrepatria in tema di immigrazione.  In occasione del rapporto annuale al parlamento sull’immigrazione dello scorso gennaio, il ministro dell’immigrazione, l’ex rifugiato somalo Ahmed Hussen, ha annunciato l’ingresso di oltre un milione di “residenti permanenti” nella società canadese entro il 2021.

“Gli immigrati e i loro discendenti hanno dato contributi incommensurabili al Canada, e il nostro successo futuro dipende dal continuare a garantire che siano ben accolti e ben integrati”, ha detto Hussen. In Canada il rapporto lavoratori-pensionati sta pericolosamente — e velocemente — avviandosi alla parità, e il governo di Justin Trudeau non vuole affrontare una crisi di questo tipo. La metà degli immigrati in Canada nel 2017 sono arrivati per motivi economici (ca. 160.000 persone); il resto (ca. 44.000) sono rifugiati o persone accolte in seguito a considerazioni politiche e umanitarie. Entro il 2021 la quota di profughi e rifugiati sarà portata a 64.500 unità.