Dutch Nazari è il punto di incontro tra rap e canzone d’autore
Dalla scena hip hip della provincia di Padova al Magnolia di Milano: abbiamo intervistato il primo cantautorapper italiano.
Dutch Nazari è un artista completo: canta, rappa, scrive poesie e testi mai scontati.
I suoi brani parlano dei problemi della nostra generazione, la generazione Erasmus, quella degli expat, parlano dell’ambiente, dei social network — sempre con un velo di ironia.
Il 16 novembre 2018 per Undamento è uscito Ce lo chiede l’Europa, prodotto assieme a Sick et Simpliciter, ovvero Luca Patarnello, amico e producer di Dutch fin dai primi lavori.
Domani sera saremo al Magnolia per la tappa milanese del suo tour!
Come va? Sei nel pieno del Tour europeo in Italia: come sta andando?
Sì, siamo nel pieno, ma siamo anche all’inizio perché questo è solo il tour primaverile, poi andremo avanti per tutta l’estate probabilmente. Quello del live è il momento un po’ più vero e bello di far musica: io ho una formazione hip hop e sono cresciuto con l’idea che il palco è il vero momento in cui ci si misura come artisti e performer. Quest’anno siamo riusciti a inserire la batteria nello spettacolo con un batterista nuovo che si chiama Matteo detto Mowa che personalmente considero un fenomeno.
A proposito della tua formazione, come dicevi sei cresciuto nella scena rap e hip hop della provincia di Padova, ma ad oggi fai un genere libero da categorizzazioni, tra l’elettro pop e l’indie, con testi intimisti e fortemente poetici — definito cantautorap, da Dargen D’Amico. Credi sia possibile uscire dalle etichette e iniziare a giudicare la musica e basta?
Io capisco l’esigenza di dare una definizione per capire di cosa si sta parlando, però poi secondo me bisogna lasciare lo spazio all’ascolto della musica in sé, perché è impossibile in una parola riassumere e descrivere l’intera opera di un artista.
Si legge spesso che siamo in una fase di contaminazione dei generi, dei loro immaginari e dei loro pubblici? Ci sono feat che prima erano impensabili. Mi viene in mente, per esempio, il brano uscito da poco di Rkomi ed Elisa.
Sì, ma se vai a vedere vent’anni fa c’era tutta la scena underground, ma anche gli Articolo 31 o i Sottotono che avevano duettato con i Gazzosa. Quindi rap e pop si sono incontrati sempre. Questo incontro poi si riformula in base all’epoca. Ma se c’è una cosa su cui secondo me si sta facendo passi avanti e potrebbe venire superata è questa super barriera che in molti vedono tra rap e canzone d’autore, come due scatole chiuse. Secondo me invece se prendi una persona, una penna che applica alla musica le parole, quella è l’unica categoria, e poi si può declinare nei vari generi. Ma è superabile la barriera che il rap sia un genere separato da tutti gli altri.
A proposito di parole, il tuo modo di utilizzarle è molto interessante. È ricco e molto diretto. Questa capacità di scrivere in modo per niente verboso, mai noioso, da dove arriva?
Quando ho iniziato a scrivere canzoni usavo tante parole. Uno degli aspetti del mio percorso di crescita è stato imparare a sintetizzare, cercando di affrontare la sfida di dire quello che volevo ma con poche parole. È meno facile, meno scontato. In particolare tra i filoni a cui mi sono avvicinato e che mi hanno influenzato c’è il poetry slam, inteso come scena. Negli anni dell’università sono diventato molto amico di Alessandro Burbank, uno dei massimi esponenti della scena poetica nazionale, che mi ha avvicinato a questa realtà — super capillare e poco conosciuta. Capillare per la sua struttura: la Lega Italiana Poetry Slam organizza delle serate in tutte le città per tutto l’anno, e c’è una vera e propria competizione nazionale, che parte dalle singole città dove viene nominato un vincitore che va alle regionali e poi alle nazionali. È una realtà molto viva e attiva. È uno dei momenti che mi ha proprio aperto la mente su cosa volesse dire usare la penna per scrivere in versi.
E partecipi ancora?
L’ultima volata a Castelfranco Veneto Natalino Balasso faceva il presentatore di una serata di poetry slam e noi — argen, Willie, Burbank, e io — abbiamo fatto una competizione tra teste di serie, si dice nel gergo. Era il 2018 quindi sì, partecipo ancora.
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C’è un sottotesto politico nei tuoi brani, ma con un approccio ironico e allo stesso tempo mai superficiale, molto diretto. Ho avuto l’impressione che le tue parole non siano quelle di un attivista ma di una persona attenta ai temi più attuali. C’ho preso?
Sì, io ho sempre avuto un approccio politico nei miei testi. Magari prima era più retorico e militante, mentre ora ho tolto gli aspetti di retorica o che potessero sembrare retorici. La sfida è quella di trovare nuove parole per dire la stessa cosa in modo più efficace.
Hai dedicato titolo e tour del nuovo album alla generazione Erasmus e ai giovani in generale. La prima generazione a vivere un’identità diffusa, senza confini — con dei privilegi che però portano con sé contraddizioni. Mi racconti un po’ com’è nata quest’idea?
Da un lato c’è sempre stato molto nella mia scrittura la narrazione degli expat dell’andare via dal proprio paese, la liquidità e lo scambio culturale, perché è la realtà che noi viviamo quindi se togli Erasmus ma e metti pronome mia diventa la mia generazione, non avrei potuto parlare d’altro.
Hai fatto l’Erasmus tu?
No [ride], ma in università c’erano tanti Erasmus e tanti miei amici andavano in Erasmus.
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Un’altra tematica molto calda che affronti è quella dell’iper importanza data all’apparenza, i social che ci sottraggono tempo in cui potremmo leggere, eccetera. Qual è il tuo rapporto con i social? Come utilizzi Instagram ora?
Spesso quello che denuncio altro non è che quello che riscontro anche in me, l’esempio dei libri lo noto su di me. Magari una volta mi leggevo un libro e ora non più. Ma non vorrei passare per il Savonarola, se dico una cosa è perché per primo la sperimento. Io uso i social con molta ironia, non mi piace mescolare la parte privata con la parte pubblica. Molti miei amici e molti momenti di divertimento avvengono tra persone del giro, facciamo gag — mi piace usarli così.
Fanno molto ridere le tue storie!
Una cosa che mi ha colpito molto ascoltando i video dei tuoi live è che hai una voce molto bella, sia per timbro che per intonazione. Tempo fa intervistando Frah Quintale venne fuori l’argomento dei rapper che poi hanno anche una bella voce. Tu prendi lezioni? Hai studiato canto?
No, non ho preso lezioni, c’è da dire però che sia io che Frah eravamo i “ritornellari,” io ho sempre cantato. Magari prima i pezzi avevano una struttura più rigida strofa rap-ritornello-strofa rap-ritornello, ora invece è un po’ più liquida. Poi per questo tour abbiamo investito negli in-ear e cambia tutto.
Tutto quello di cui abbiamo parlato fa di te un artista di contenuto. Senza stigmatizzare autori meno impegnati, meno attenti alla profondità dei testi, mi sono accorta nel tempo che la musica degli ultimi anni mi ha impigrito l’orecchio: prima ascoltavo musica per ascoltarla, mi piacevano significati, ero più attenta all’ascolto. Ora no, ascolto per staccare, per non pensare. Con te è un po’ rinata in me quella parte.
Percepisco anche io molto questa cosa, ma non so quali siano le cause, forse sono solo invecchiato, prima se sentivo un pezzo serratissimo di 5 minuti non vedevo l’ora di riascoltarlo e impararlo a memoria, ora meno. Una componente importante però è anche la musicalità: negli Stati Uniti ci sono molti rapper che anche se usano testi verbosi che magari non capisci, in qualche modo la cosa gira anche se non sai l’inglese. Questo aspetto qui è imprescindibile. Quindi ben venga l’utilizzo di testi con una quadra anche dal punto di vista del significato però la roba deve suonare e devono stare assieme le due cose. Tutto questo per dire che secondo me sono due aspetti che devono coesistere.
Questo discorso mi ha fatto venire in mente, per esempio, l’utilizzo che fa Tedua delle parole.
Sì, Tedua fa proprio un utilizzo quasi magico delle parole per come riesce ad accartocciarle, a sfruttarne la musicalità e a sottolinearne i suoni: tutto questo compensa eventualmente il significato letterale.
In un’intervista hai detto “non indovineresti mai che cos’ho sull’iPod.” Quindi proviamo. Vado di classiconi pescati in vari generi e tu mi dici se sì o se no.
Frank Ocean
Sì a manetta, Blonde è stato l’album più ascoltato del 2016 sia per me che per Luca — quindi sì, ci siamo.
Rkomi
Non ho ascoltato le ultime cose uscite ma il suo primo EP, Dasein sollen l’ho consumato.
La rappresentante di lista
Mi piace, conosco un po’ meno ma il singolo “Questo corpo” è una bomba!