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Un anno fa ci siamo occupati del cosiddetto “caso Mered.” Abbiamo richiamato Lorenzo Tondo, giornalista del Guardian, che sulla vicenda di Medhanie Tesfamariam Berhe ha appena pubblicato un libro, per capire se qualcosa è cambiato.

I sistemi giuridici moderni sono costruiti per far in modo che sia più probabile assolvere un colpevole che condannare un innocente. Non sempre però le cose vanno come dovrebbero, e il potere dello stato finisce a volte per commettere ingiustizie. Oggi, in Italia, c’è almeno una persona che lo sta sperimentando sulla propria pelle: Medhanie Tesfamariam Berhe, un pastore eritreo trentenne che due anni fa è stato scambiato per un trafficante di esseri umani, e da allora si trova al centro di una vicenda giudiziaria surreale, che sembra non avere mai fine.

Nel giugno 2016 Medhanie viene arrestato a Khartoum a causa di una serie di imprecisioni nelle indagini, condotte dalla procura di Palermo e dalle polizie europee, è stato scambiato per Medhanie Medego Mered, che in effetti è stato per lungo tempo uno dei signori della tratta di esseri umani tra l’Africa e l’Italia. Nonostante le numerose evidenze — solo per citarne alcune: un test del DNA, le dichiarazioni di centinaia di eritrei, l’incredibile coincidenza che mentre Berhe veniva arrestato il vero Mered fosse in carcere a Dubai — Berhe si trova da due anni nel carcere dell’Ucciardone di Palermo.

Il caso è molto più noto all’estero che in Italia, dove è passato sotto relativo silenzio, o è stato affrontato in modo carente. Tra i pochi ad essersene davvero interessati c’è Lorenzo Tondo, giornalista palermitano, corrispondente del quotidiano inglese the Guardian, che ha raccolto la propria esperienza di cronista — inclusa l’aperta ostilità nei suoi confronti da parte della procura di Palermo — in un libro, pubblicato il 15 novembre da La nave di Teseo: Il Generale, soprannome col quale il vero trafficante, Mered, è noto a molti eritrei.

Ciao Lorenzo. Ci eravamo già sentiti un anno fa, quando Medhanie era già in carcere da un anno. Ci sono speranze che esca a breve?

È difficile dirlo. C’è un processo in corso e il verdetto potrebbe arrivare per febbraio-marzo: si aspettano ancora delle perizie, dei testimoni. Purtroppo fino a quando i procuratori non alzeranno le braccia e ammetteranno l’errore, con una richiesta di archiviazione, si andrà avanti fino a quando non termineranno tutte le udienze già stabilite. L’impressione — è un’impressione — è che comunque questo processo non possa finire con una sconfitta della procura, e che il tentativo che si sta portando avanti in questo momento sembra essere quello di provare ad accusare Medhanie di reati minori legati al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Insomma, finire questo processo ammettendo uno scambio di identità ma dicendo comunque “abbiamo arrestato un uomo vicino al traffico di esseri umani.” E non è così.

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Cosa gli viene contestato, adesso?

Già dallo scorso anno hanno smesso di chiamare l’imputato Medhanie Medego Mered, il nome del trafficante, ma hanno iniziato a chiamarlo Medhanie Tesfamariam Berhe alias Medhanie Tesfamariam Berhe. Negli ultimi fascicoli in effetti sembrano essere scomparsi i reati di traffico di esseri umani: Medhanie in queste attività integrative non viene presentato più come un boss della tratta ma quasi come una specie di criminale. Gli viene contestato, ad esempio, di avere nel suo cellulare il numero di un trafficante. Ovviamente quale eritreo che vive a Khartoum, quale immigrato che arriva in Libia non ha il numero di telefono di un trafficante? In quale altro modo raggiungerebbe la Libia e l’Europa? Se questo vale per qualsiasi migrante, evidentemente, sembra non valere per Medhanie.

Questa vicenda ha dell’incredibile, ed è incredibile che non sia ancora scoppiato un “caso” a riguardo. Cos’è andato storto, chi avrebbe dovuto farlo scoppiare?

Credo che le responsabilità siano tante. Io stesso faccio fatica a spiegarmi come mai il caso italiano più seguito all’estero dopo il caso Regeni continui ad essere ignorato dai media italiani. Le responsabilità sono certamente dei cronisti e, purtroppo, dei miei stessi colleghi palermitani. E devo anche dire che chi dovrebbe facilitare la diffusione di questo caso dovrebbero essere soprattutto le agenzie di stampa, che seguono quotidianamente altri processi a Palermo. Le agenzie tendono a riportare ogni bazzecola che appare sulla stampa estera riguardo al nostro paese, mentre si celebra da due anni il processo italiano più seguito all’estero e fatichiamo a parlarne. Quando hanno trattato il processo hanno riportato quanto detto dall’accusa, ignorando ad esempio le perizie contrarie. Ho come l’impressione che molti dei miei colleghi cronisti abbiano evitato di parlare del caso consapevolmente, per evitare uno scorso inevitabile con la procura.

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In Sicilia c’è anche un’altra procura: quella di Catania, guidata dal procuratore Zuccaro, che ha svolto un’attività deplorevole contro i migranti e chi è impegnato a rendere la loro vita meno difficile. Dove nasce questo atteggiamento, evidente soprattutto negli ultimi due anni?

Sicuramente c’è un atteggiamento repressivo da parte della procura di Catania, conosciuta per questo ormai in tutta Europa. Non so da cosa possa nascere: sono però convinto che quanto fatto fino ad oggi non abbia portato a nulla dal punto di vista giudiziario, ma che abbia contribuito a infangare il lavoro fatto fino ad oggi dalle ONG. Questo ha avuto e sta avendo inevitabilmente ripercussioni su quanto avviene nelle acque libiche. Ricordiamoci che da quando è iniziata questa campagna mediatica e giudiziaria, c’è stato un incremento delle morti: il numero di arrivi è diminuito, ma il numero di morti è tre volte più alto, e purtroppo è una conseguenza anche di quelle indagini. La procura di Catania si indigna per i rifiuti dell’Aquarius, ma sembra non essersi indignata quando le è arrivato il fascicolo di sequestro di persona riferito a Salvini, facendo richiesta di archiviazione per un reato, secondo me, gravissimo.

Sono passati cinque anni dalla strage di Lampedusa, che ha segnato un punto di svolta nella guerra al traffico di esseri umani, in cui purtroppo è rimasto coinvolto anche un innocente come Berhe. Cos’è andato storto?

Quel giorno l’Europa capì che non poteva più stare a guardare mentre il Mediterraneo ingoiava vittime. Se quanto fatto inizialmente aveva l’obiettivo di fermare le morti in mare, come l’operazione Mare Nostrum, tutto è diventato — purtroppo — un modo per fermare gli sbarchi stessi. Ha contribuito un approccio errato dei paesi europei, che hanno deciso che l’unico modo per porre fine al traffico di esseri umani era arrestare i trafficanti — e non è così, ovviamente: il traffico è il risultato, non la causa della crisi migratoria. Si è adottato un approccio giudiziario anziché umanitario.

È stato un errore bombardare l’Africa di intercettazioni e indagini che non hanno grossomodo portato a nulla, aver pensato di poter applicare al traffico di esseri umani le stesse strategie applicate alla criminalità organizzata: i trafficanti di uomini non sono dei boss, sono delle agenzie di viaggio criminali, così percepite dagli stessi migranti, che per il loro viaggio non hanno alternativa se non rivolgersi a loro.

Un altro errore è stato quello di avere stretto accordi, espliciti o meno, con paesi come il Sudan: paesi dai quali i migranti scappano — fatto che ha portato a problemi anche di natura etica. La presunzione di poter portare nelle aule dei trafficanti di uomini indagati con una caccia a distanza, stando seduti dietro le scrivanie, ha portato all’arresto di numerosi innocenti. Ricordo il caso di Mulubrahan Gurum, nel libro: un eritreo condannato in quanto cassiere dei trafficanti, per esser stato costretto a maneggiare solo 500 euro. Aver evidenziato eccessivamente gli arresti solo per aver mostrato di aver fatto bene il proprio lavoro. Noi oggi continuiamo ad arrestare gli scafisti — nonostante chi guidi le barche sia un migrante spesso più torturato degli altri — in nome di una strategia che ha puntato tutto sulla criminalizzazione della crisi migratoria.

Stai pensando di far tradurre il libro?

Roberto Santachiara è in contatto con alcune case editrici inglesi interessate. L’idea è proprio quella. Purtroppo potrebbe avere più fortuna all’estero che in Italia.


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