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È terminato ieri il secondo fine settimana del Festival della Fotografia Etica di Lodi, alla sua IX edizione.  Un fine settimana segnato inevitabilmente dai tanti che sono insorti contro il mancato accesso alla mensa di alcuni bambini stranieri nelle scuole comunali di Lodi.

Un tema che non può essere evitato da parte dell’organizzazione del Festival per due motivi: il nome di cui si vanta lo stesso festival — etico — e il patrocinio del Comune.

Non si tratta di una deliberata voglia di fare la morale agli organizzatori, al gruppo Progetto Immagine che organizza il Festival o a tutti coloro che in qualche maniera stanno dietro all’evento che anima, e sempre di più col passare degli anni, la città e le persone stesse ad interessarsi alla fotografia.

Una formula che ha successo probabilmente anche grazie al nome del festival, facile ed intuitivo per una platea più ampia dei soli professionisti o direttamente coinvolti nel mondo della fotografia.

Tuttavia, the Submarine è media partner del Premio Voglino, pertanto ritengo corretto voler puntualizzare che l’affetto che ci lega a questo evento per la sua natura aperta e per la qualità delle mostre prodotte, così come dei premi, è sicuramente da non dover ricondurre ad alcune scelte, in ambito politico, che stridono nettamente proprio con quello che ci lega al Festival.

Taluni avrebbero consigliato di boicottare il Festival in segno di protesta. Ma, così come la sindaca pare nascondersi dietro alla burocrazia, prendiamo a prestito anche noi questa scusa per fare il contrario. Non slegarci dal festival perché vogliamo supporre che la burocrazia possa essere di intralcio per il Festival nei confronti del Comune. Godiamoci dunque la manifestazione, manifestando ognuno nella forma che preferisce il dissenso nei confronti di alcune scelte di questi ultimi tempi, cosa che questa redazione ha fatto in altre occasioni.

Ma torniamo al Festival. Questo fine settimana ho visto le mostre ufficiali del Festival ma l’unica di cui vorrei parlare è quella che riguarda il premio Master Award 2018: il lavoro The Rohingya: Exodus to Bangladesh 2017 di Paula Bronstein. Passo solo in rassegna le altre mostre che mi sento di consigliarvi. Sicuramente lo spazio tematico uomo-animale: quale futuro? all’interno della chiesa di San Cristoforo: sono esposti i lavori di Paolo Marchetti, Nikita Teryoshin e Ami Vitale. A seguire lo spazio approfondimento, dove è esposto il progetto a lungo termine di Mary Calvert sulle donne dell’esercito americano che hanno subito violenze da parte di ufficilali. Tra i vincitori dei premi del Festival consiglerei tutte le mostre ad eccezione, per l’appunto, del premio Master Award.

Si tratta di un lavoro che riguarda il popolo rohingya, la minoranza più perseguitata al mondo. La fotografa si è recata nel campo profughi più grande della storia, nella provincia di Cox’s Bazar, dove sono presenti circa 700.000 profughi provenienti dal Myanmar. Senza aprire una parentesi su questa storia, che fortunatamente è stata dibattuta e portata al grande pubblico, la domanda che mi sono posto, guardando la mostra, è perché proprio questo lavoro sia stato giudicato il vincitore del premio più importante del Festival di questa edizione. Me lo sono chiesto per due motivi, che si intrecciano: il primo è il tema che rappresenta, il secondo è come viene affrontato, contenuto e forma rispettivamente. Parto dal secondo motivo, perchè il primo potrebbe essere ovvio. A due settimane circa dall’inizio dell’esodo, il Guardian aveva pubblicato un reportage di Kevin Frayer, condiviso da molti utenti. Ricordo di averlo visto e di non essermi sentito particolarmente avvicinato alle persone ritratte. Lo ammetto, purtroppo le fotografie che avevo davanti mi sembravano dare un taglio poco originale o interessante alla questione, senza permettere al fruitore — sempre le fotografie — di provare la giusta empatia o di comprendere effettivamente cosa stesse succedendo. L’ho fatto, ma l’ho dovuto fare più con le parole che non con le immagini.

Paula Bronstein ha realizzato un reportage sulla stessa situazione, concentrandosi maggiormente sul campo profughi e non tanto sull’esodo, probabilmente in un periodo posteriore a quello di Kevin Frayer. Posso supporre questa cosa confrontando le immagini dall’alto realizzate da Frayer e dalla Bronstein. Il secondo motivo si ritrova, e ci torno e mi spiego più avanti, in questa sensazione di cose già viste che mancano di calore. Ora posso tornare a spiegare meglio perchè uno dei motivi è proprio il tema, quindi il contenuto.

Focalizzandosi pressoché esclusivamente sul campo profughi, ed essendo la scadenza per le candidature il 13 maggio 2018, posso immaginare ci fosse del tempo per approfondire la questione maggiormente. È bene precisare che le parole sono rivolte maggiormente alla giuria piuttosto che alla fotografa vincitrice; in fondo, ogni fotografo è libero di fare le scelte che desidera, diverso è il giudizio che dovrebbe dare una giuria, che dovrebbe tenere conto anche di questi aspetti. Pertanto, quello che il primo premio del Festival ci permette di vedere è qualcosa di cui, voglio immaginare  — e sempre purtroppo —, tutti abbiamo già fatto esperienza, a livello visivo. Torno a chiedermi come mai questa scelta.

A questo punto di nuovo un passo indietro, torno alla forma, tralasciando il contenuto. Intendiamoci: come sono queste foto? Almeno sono belle? È qui che si apre un ulteriore livello di lettura e di approfondimento. Sebbene il mio occhio non si sia particolarmente affaticato e il mio cervello non sia stato attivato se non per le considerazioni che ora sto esponendo, non posso certo dire che in mostra ci siano foto brutte. Ma il bello, in senso puramente estetico, forse non basta

Purtroppo, e qui cambio registro, le stesse fotografie, prese singolarmente, fanno facilmente leva proprio sui sentimenti più eloquenti, quelli dell’eccesso: pianto-risata, vita-morte, gioia-tristezza. Provo a suggerirvi, se ne avete l’occasione, di fare caso a tre fotografie in particolare, in cui è presente uno stesso oggetto, una brocca, in mano ad un bambino o una bambina: una volta il bambino piange — disperazione —, in un una bambina guarda altrove, impassibile — speranza — e nell’altra il bambino con l’acqua gioca — gioia. Non mi sorprende in questo senso la motivazione che la giuria ha dato per l’assegnazione del premio: “Un reportage umanitario realizzato nella grande tradizione del miglior fotogiornalismo, dove il racconto mantiene l’equilibrio e il rispetto del dolore di un’intera popolazione. Coglie l’obiettivo di descrivere un terribile esodo in modo profondo e umano oltre a raggiungere un grande impatto emotivo e documentale.”

Prima di passare alle conclusioni, mentre scrivevo, ho anche realizzato che lo scorso anno, lo stesso premio, è stato dato ad un lavoro che aveva forse le stesse premesse – sebbene in sé avesse un maggiore impegno politico —ma aveva una narrativa che si può considerare tranquillamente opposta a quella di quest’anno. Mi chiedo come possa una stessa giuria dare valutazioni così diverse. Certo, alcuni componenti della giuria cambiano ma, restando fermi Alberto Prina e Aldo Mendichi, dovrebbero rimanere costanti anche principi e linee guida. Ma questo, forse, è un di più.

Ad ogni modo, nonostante le riflessioni che sono emerse, così come le domande che mi sono posto, una risposta certa e netta alla domanda perchè questo premio, e soprattutto perchè non dovrebbe essere stato dato non sono riuscito a darla. E non vorrei prendere in considerazione gli altri finalisti, sarebbe fin troppo facile. Si tratta di una scelta e questa va valutata, elogiata, criticata. Prendo atto che quest’anno il Festival abbia preferito un linguaggio semplice, diretto, empatico, su un tema molto noto.

“Bisogna sempre scrivere solo testi d’amore?

Prendo a prestito una frase dei Bluvertigo perchè anche il pianto disperato di un bambino è un testo d’amore. Come una favola, ci fa volare alto per trasportarci nel mondo dei sogni e poi seppellire la favola stessa. La fotografia, se etica vuole essere, dovrebbe tenerci sempre in alto, vigili osservatori del mondo, non fruitori passivi delle condizioni altrui.