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Solo da poco la piccola repubblica post-jugoslava ha iniziato a fare i conti con il capitolo dell’Olocausto che si svolse sul proprio territorio. Reportage da Skopje.

Nel 1492, pochi mesi prima che Cristoforo Colombo raggiungesse le coste americane, la monarchia cattolica spagnola di Castiglia e Aragona emetteva l’editto di Granada, che decretava la repentina espulsione degli ebrei dalla penisola iberica. Il provvedimento arrivava al culmine di una lunga ondata di violenza antisemita, sfociata in eventi come il massacro del 1391 a Siviglia e l’espulsione degli ebrei dall’Andalusia nel 1483.

Se alcuni membri della comunità ebraica decisero allora di convertirsi — almeno di facciata — al cristianesimo, molti scelsero di lasciare la Spagna. I numeri non sono certi, ma si parla di circa 50-100.000 ebrei che lasciarono la penisola iberica. Questo esilio forzato produsse quella che viene definita diaspora sefardita, dal toponimo biblico per Spagna, “Sepharad.” Meta di questi migranti furono allora il Portogallo, le coste settentrionali dell’Africa, gli staterelli italiani, l’Inghilterra, le terre fiamminghe, ma anche i territori dell’Impero Ottomano nel Medio Oriente e nei Balcani. Si dice che il sultano Solimano il Magnifico ironizzò sulla decisione di re Ferdinando: “Lo chiami re colui che impoverisce i suoi stati per arricchire i miei?”, pronunciò secondo la leggenda.

La Macedonia, allora ottomana, divenne presto un luogo fertile per l’insediamento degli esuli sefarditi. Nell’area vivevano ebrei già dall’epoca romana, ma fu solo in questo momento che Monastir (oggi Bitola) divenne, assieme a Skopje e Štip, un centro culturale dalla presenza ebraica preponderante. L’amministrazione ottomana garantiva a questa comunità una relativa autonomia, libertà di culto e di commercio, in cambio del pagamento regolare dei tributi. Nel 1497 a Bitola già comparve un cimitero ebraico, probabilmente il primo di tutta la regione balcanica.

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Per oltre 400 anni la comunità sefardita ha convissuto pacificamente nel patchwork di religioni e culture balcanico, tanto da mescolare molte sue caratteristiche con quelle locali. Anche la lingua, il ladino (parlato dai primi esiliati), assorbì tratti di altre lingue del bacino mediterraneo, quali il greco, il turco o l’italiano — pur conservando molte sonorità dello spagnolo. Questa lingua, studiata in alcune università statunitensi e israeliane, è oggi riportata in auge da artisti e cantanti tradizionali, come Sarah Aroeste.

La sua famiglia lasciò Bitola durante le guerre balcaniche di inizio Novecento. Sarah ricorda che da piccola era “confusa dal fatto che mio nonno chiamasse la propria patria Grecia, si definisse turco e dicesse di parlare spagnolo.”

La fine dell’Impero Ottomano e la nascita del regno jugoslavo non intaccarono di molto la vita della comunità ebraica macedone. Come accadde nel resto dei Balcani e non solo, il vero spartiacque furono gli anni Quaranta e l’invasione dell’area da parte della Bulgaria nazista (1941). Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale gli ebrei in Macedonia erano stimati attorno ai 10.000 membri, di cui 8000 nella sola Monastir. Durante il conflitto circa il 98% di essi venne trucidato nel campo di Treblinka. La Bulgaria, in quanto membro dell’Asse, pur rifiutandosi di deportare gli ebrei con cittadinanza bulgara, rastrellò quelli che abitavano nella neo-acquisita regione macedone. Prima vennero imposte restrizioni sul lavoro e la libera circolazione, quindi nel 1941 venne creato il ghetto di Monastir; infine la mattina dell’11 marzo 1943 iniziarono le vere e proprie deportazioni. L’enorme magazzino statale di tabacco Monopol a Skopje fu convertito in centro temporaneo di detenzione in quanto provvisto di linea ferroviaria: da qui in sei giorni tre lunghi convogli ferroviari portarono i deportati a Treblinka.

Una fotografia scattata nel marzo del 1943 ritrae alcuni ebrei macedoni che salgono su uno di questi convogli. L’immagine era stata probabilmente commissionata da Aleksander Belev, il commissario bulgaro per gli Affari Giudaici, così da documentare la deportazione. Il ragazzino che vi compare è stato riconosciuto decenni dopo da Rachel Kornberg come suo fratello Victor Nahmias. Victor non sopravvisse, ma Rachel fu più fortunata. Ora vive negli Stati Uniti e ha da poco compiuto 100 anni. Suo nipote Neil ci ha raccontato la sua storia.

I Nahmias erano una numerosa famiglia di mercanti di Monastir. Il padre e gli zii di Rachel avevano un negozio che vendeva tessuti, Barouch Franco; avevano filiali anche a Skopje e a Salonicco. Negli anni Venti si erano trasferiti in una zona più ricca della città, in via Re Pietro, oggi ancora riconoscibile dalla Stella di David al primo piano. La famiglia era attratta dallo stile di vita europeo occidentale e Rachel frequentò una cosiddetta “scuola francese”, con curriculum di studi identico a quello europeo.

Preoccupata per il futuro di Rachel durante l’occupazione bulgara, la madre si accordò con il vicino di casa, un console albanese, il quale la prese in casa come “au pair musulmana”. Del 10 marzo 1943 — l’ultima volta che vide sua madre — Rachel ricorda:

Le dissi ciò che il console mi aveva detto sui tedeschi, che stavano pianificando di prendere uomini e donne tra i 18 e i 25 anni. Mia madre mi guardò e disse: “Guarda, sono quasi le 5, non hai molto tempo da perdere. Vai e non pensare a me. Tuo padre arriverà domani, tuo fratello parte domattina presto. Dopo che tuo padre arriva verremo a trovarti…”. Mi spinse alla porta, non ricordo se l’ho abbracciata. Alla porta venne mio fratello più piccolo. Dove stavo andando, mi chiese. Mia madre rispose “dal vicino”. Immaginava gli avrei spiegato tutto dopo che me ne fossi andata. Mia madre chiuse la porta dietro di me e quella fu l’ultima volta che la vidi. Il giorno dopo, l’11 marzo, presero tutti gli ebrei — giovani, vecchi, malati. Mio fratello più piccolo non ebbe il tempo di fuggire. I tedeschi quel giorno bloccarono la città. Tutti i negozi erano chiusi, non c’era nessuno per le strade.

Quando qualcuno sembrò riconoscerla, il console portò Rachel a Tirana e da lì a sud, ad Elbasan. Così riuscì a sopravvivere. Oltre a lei soltanto un altro dei fratelli Nahmias, Jacques, passò indenne le vicende belliche: era riuscito a scappare a Milano, poi a Roma, dove sposò un’italiana.

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Dei pochi ebrei rimasti in vita in Macedonia molti emigrarono, principalmente in Israele. Oggi a Bitola la comunità, una volta fiorente, non esiste più; a Skopje si contano 225 praticanti.

Dopo il collasso della federazione jugoslava lo stato macedone ha timidamente inaugurato una serie di azioni pubbliche per commemorare gli ebrei macedoni morti durante l’Olocausto.

Oggi l’edificio del Monopol esiste ancora e una placca ricorda le deportazioni. A Bitola all’entrata del cimitero il visitatore è accolto dalla lista di tutti i deportati. Il cimitero municipale Butel di Skopje ha una sezione separata per le vittime ebree. Infine, nel 2005 a Skopje sono iniziati i lavori di costruzione per il Memorial Center degli ebrei di Macedonia.

Progettato da Berenbaum Jacobs Associates, il nuovo museo racconta la storia millenaria degli ebrei macedoni, dai primi insediamenti alla contemporaneità, passando per il felice periodo ottomano. Il centro è stato aperto ufficialmente pochi mesi fa.

L’inaugurazione del Memorial Center, la cui placca esterna riporta la dicitura anche in lingua ladina, è stata un segno importante. Oggi la Macedonia sembra dimostrare una nuova attenzione per la memoria dell’Olocausto. La cantante Sarah Aroeste è convinta che questa rinnovata cura sia ben rappresentata “dalle collaborazioni sponsorizzate dallo stato con Israele, ad esempio, per il restauro del cimitero [di Bitola] e dai numerosi festival culturali promossi dal governo dedicati agli artisti e alla storia ebraica”. Lo scorso anno Sarah è stata invitata a Bitola a esibirsi. Lì, sostiene, “le persone sembravano affamate di sapere di più riguardo alla storia delle comunità ebraiche che vennero annichilite negli anni Quaranta”.