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I ragazzi dell’associazione italiana Operazione Colomba, attiva in un accampamento di profughi siriani nel nord del Libano, ci raccontano delle condizioni d’accoglienza e dei limiti del lavoro delle agenzie internazionali e delle Ong.

*Questo articolo fa parte di Malja’a Lebanon, un reportage in quattro puntate su alcune esperienze di auto-organizzazione e attivismo tra i rifugiati in Libano. Puoi leggere le altre puntate della serie qui.

Dopo il nostro incontro con il teatro Baylsan, decidiamo di prendere contatto con i ragazzi di Operazione Colomba. Si tratta di un’associazione italiana nata negli anni Novanta a partire dell’esperienza della comunità Papa Giovanni XXIII nel conflitto jugoslavo. Da allora hanno organizzato diverse attività come corpi di pace nonviolenti in diversi teatri di conflitti un po’ in tutto il mondo. Abbiamo la possibilità di parlare con due volontari, Silvia — che incontriamo a Beirut — e Alessandro, responsabile delle attività nel Paese, che raggiungiamo direttamente nel campo informale in cui operano.

L’attività in Libano è iniziata nel 2013 e nel 2014, su invito degli stessi rifugiati, i volontari si sono stabiliti all’interno dell’accampamento. “Nel 2015 la guerra in Siria era ancora molto incerta,” ci spiega Alessandro, “e la gente viveva con la paura che potesse espandersi qui in Libano. Spesso, quando un incidente interessava le forze militari libanesi, partiva una rappresaglia sui campi, con uomini e ragazzi arrestati e altre forme repressive. La nostra presenza ha permesso di limitare tutto ciò, anche perché in un certo senso facciamo da garanti dell’assenza di terroristi e di armi nel campo.” Quest’ultimo si trova nel nord del Paese, nella regione dell’Akkar, nei pressi del paesino di Tel Abbas. Il confine siriano è a un’ora di marcia a piedi.

Il campo informale di Tel Abbas, Akkar
Il campo informale di Tel Abbas, Akkar

La regione, completamente militarizzata, ospita secondo l’ultimo censimento circa 200 mila abitanti. Alessandro ci rivela che il numero di rifugiati siriani è praticamente identico: “La situazione non è più sostenibile per la popolazione locale. Certo, non mancano i libanesi che si stanno arricchendo sulle spalle dei siriani, ma la maggioranza percepisce la presenza dei rifugiati come una minaccia, soprattutto la comunità cristiana, ma non solo.” Alessandro entra nei dettagli della situazione “burocratica” dei rifugiati. Per lo stato libanese i documenti dell’UNHCR sono carta straccia: chi viene fermato a uno dei posti di blocco, soprattutto se uomo, viene arrestato e trattenuto per tre giorni. Spesso in questa trafila perde anche i documenti.

Una famiglia ci invita ad entrare in casa: vivono in una sorta di monolocale al piano terra di un palazzo non ultimato. “I rifugiati qui pagano un affitto. Questi non sono campi organizzati dall’UNHCR o da noi, sono privati libanesi che affittano tende e baracche. Per una regione rurale e povera come questa, l’affitto pagato dai rifugiati può essere una fonte di soldi facili. In fondo, non devi garantirgli alcun diritto o servizio.”

Padre e figlio nel campo di Tal Abbas
Padre e figlio nel campo di Tel Abbas

La casa, totalmente in cemento grezzo, è resa più confortevole da una serie tappeti e cuscini, che formano una specie di salone. Invitati ad accomodarci, Karim e la moglie Fatima (nomi di fantasia), ci ricoprono di attenzioni, ci offrono tè alla menta e qualcosa da mangiare. Poi Karim occupa la scena e inizia a rispondere alle nostre domande. Fatima resta in disparte, ma interviene di tanto in tanto a puntualizzare quanto detto dal marito. A volte i ricordi sono interrotti da qualche lacrima e Karim si alza almeno due volte per andarsi ad asciugare il viso. La loro è una lotta per mantenere la dignità.

Partiti sette anni fa da Aleppo, con dieci figli — il maggiore è rimasto lì — hanno passato due anni a girovagare per la Siria. “Ti fermi in un posto, pensi sia tranquillo. Poi la notte senti spari ed esplosioni e ti sposti per altri 30 chilometri.” Poi la scelta di venire in Libano. L’alternativa era la Turchia, ma non se ne parlava bene — “si diceva che il governo mandasse sicari ad uccidere la gente anche lì.” Poi c’è la faccenda della lingua. “Questa regione,” ci spiega Alessandro, “è molto vicina culturalmente, anche a livello di dialetto, con la Siria.”

Nell’accampamento la vita è difficile. “Non lavoriamo molto e quando lavoriamo ci pagano poco, spesso in ritardo… A volte ci promettono che ci pagheranno e poi cambiano idea,” spiega Karim. I bambini possono andare a scuola, grazie all’impegno dell’UNHCR che paga le scuole libanesi per restare aperte anche il pomeriggio e fare delle classi apposite per i siriani. Una sorta di apartheid scolastico, che di certo non aiuta gli alunni nel rendimento. Karim e Fatima ci spiegano di non essere per nulla soddisfatti del servizio e Alessandro sostanzialmente concorda, ma conclude con un serafico “meglio che niente.”

Una bambina all’ingresso della scuola interna al campo
Una bambina all’ingresso della scuola interna al campo

I nostri ospiti ci raccontano degli episodi di razzismo che sono costretti a sopportare, ma non sembra la cosa che li ferisce di più. A offenderli è soprattutto lo sfruttamento: chi chiede loro l’affitto senza offrire servizi, chi pretende parte degli aiuti umanitari come una sorta di pizzo, chi non paga per il lavoro svolto. Alessandro annuisce. Poco prima lui stesso era stato molto duro a riguardo: “Il sistema messo su dalle agenzie Onu e dalle Ong è fallito. È fallito anche perché è tutto un far piovere soldi senza guardare dove vanno. Sulle spalle dei rifugiati siriani si stanno arricchendo in molti: libanesi e non.” Gli chiediamo di essere più chiaro e lui ci fa qualche esempio: “Credo che ci voglia equilibrio per tutto. Quando vedo gente venire in missione, anche con le migliori intenzioni, e prendere stipendi che sono decisamente fuori scala, visto il contesto, mi pongo molte domande. Spesso le Ong passano dal campo, ma non restano qui. Fanno un check di quello che pensano possa servire e qualche tempo dopo si presentano con la soluzione. Una di queste organizzazioni, per esempio, ha concluso che servissero dei bagni e ce ne ha costruiti due. Benissimo, ma ogni tenda qui ha già un suo bagno, mentre l’anno scorso un bimbo è morto per un incidente elettrico. Ecco, magari chiedendo alla gente, restando un po’ sul luogo si potrebbero utilizzare meglio i fondi. E questo quando parliamo di gente con buone intenzioni…”

I ragazzi dell’Operazione Colomba, oltre a dare una mano concretamente nell’accampamento, svolgono un lavoro di mediazione e accompagnamento. I rifugiati non possono passare i numerosi posti di blocco sparsi un po’ ovunque nella regione, ma spesso devono arrivare fino a Tripoli per accedere agli uffici dell’UNHCR. Allora i volontari li accompagnano e, in questo modo, “la maggior parte delle volte la polizia e l’esercito ci lascia passare.” Silvia ci spiega che per alcune situazioni il lavoro va oltre l’accompagnamento: “I medici trattano a volte in maniera superficiale i rifugiati o cercano di imporre loro cure non necessarie e costose. Il fatto di essere lì e di porre anche noi delle domande limita queste derive”. Chiediamo se fanno delle attività per cercare di risanare il rapporto con la cittadinanza libanese e Silvia ci spiega che ufficialmente non fanno nulla a riguardo: “Ma informalmente, spesso semplicemente andando a fare la spesa e parlando, ad esempio, con la comunità cristiana, svolgiamo questo lavoro. La nostra presenza ha anche il compito, solo per se stessa, di rilassare un po’ gli animi.” Il che non vuol dire che non capitino incidenti e Alessandro ci mostra i segni di un incendio doloso appiccato qualche mese prima nel locale della piccola “scuola” del campo.

Altre attività vengono svolte saltuariamente: corsi di lingua, animazione per bambini e, quando c’è a disposizione un medico, una sorta di piccolo ambulatorio.

“La questione sanitaria è una delle più gravi perché si somma ai limiti del sistema libanese, che di suo non offre sanità gratuita ai suoi cittadini,” ci spiega Alessandro. “Anche se formalmente non è così, i malati più gravi sono lasciati morire. Bambini col cancro, a cui viene promesso dalle agenzie Onu che potranno andare a curarsi in Europa, aspettano invano il processo di ricollocamento… Che non avviene quasi mai in tempi utili.”

Qual è il futuro di queste persone? Chiediamo a Karim cosa vorrebbe per il suo. “Io tornerei a casa, ma in queste condizioni è impossibile. Servono le condizioni minime.” Quali sono le condizioni minime? “Niente più militari, di nessuna fazione… Ma vedi, anche se anche tornassimo ora, la nostra casa, la nostra città è totalmente distrutta. Se non ci vai e vedi coi tuoi occhi, non puoi capire cosa vuol dire una città distrutta: una lunga serie di macerie.” Sei arrabbiato? “Certo, costantemente!” ci risponde con le lacrime agli occhi. Fatima aggiunge: “Avevamo una casa, un lavoro, i nostri amici, la nostra vita.”

Foto scattata da un bambino nel campo
Foto scattata da un bambino nel campo

Il progetto principale cui l’Operazione Colomba sta lavorando è la cosiddetta Proposta di pace. Cercando di tradurre in pratica i desideri delle famiglie siriane rifugiate, come quella di Fatima e Karim, è stata messa su carta una proposta che prevederebbe la costruzione di un territorio non militarizzato nel distretto di Homs. Unica eccezione dovrebbero essere i caschi blu, chiamati a garantire la sicurezza. La regione potrebbe così ri-accogliere i profughi e permettere loro di ricostruirsi una vita. Un gran numero dei rifugiati presenti nell’Akkar vengono infatti da Homs, che è il distretto confinante.

La proposta è stata scritta dagli stessi rifugiati, incoraggiati dall’associazione. Per motivi di sicurezza però, la maggior parte degli autori siriani vuole restare anonima. Su questa scena teatrale che sono il Libano e la Siria, i rifugiati siriani sono attori senza voce e tali devono restare secondo i sedicenti protagonisti. Una delegazione ha comunque portato in questi giorni la proposta a Bruxelles alle istituzioni europee. Speriamo con un esito positivo. “L’alternativa sarebbe aprire dei corridoi umanitari verso l’Europa,” ci spiega Alessandro, “ma nessun Paese europeo sembra disponibile a farsi carico dei 200 mila rifugiati presenti nella regione. Poi quando riusciamo a portare qualcuno in Europa, tramite i ponti organizzati dalle poche realtà italiane o francesi attive in questo senso, è uno strazio: famiglie che si dividono, pianti collettivi. Una soluzione non umana! La cosa migliore è davvero permettere loro di tornare in Siria.”

Tra le organizzazioni “straniere” attive sul territorio con i rifugiati Operazione Colomba ci sembra una di quelle più attente a svicolare da tendenze paternalistiche o verticistiche. Le dimensioni ridotte dell’associazione, unite alle difficoltà enormi del campo e al fatto che i volontari sono perlopiù italiani o europei, fa sì che la progettualità sia comunque limitata.


In copertina: una bambina nella scuola interna al campo di Tel Abbas.

Leggi le altre puntate del reportage:

• Bayslan, il teatro-rifugio del campo palestinese di Shatila

• Come si risolvono i problemi concreti di un campo profughi: la storia di Syrian Eyes

• “Costruire un teatro è come costruire una speranza”

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