La corsa silenziosa al World Press Photo

Quest’anno il World Press Photo ha annunciato i vincitori in una maniera del tutto inedita, due mesi prima della serata delle premiazioni.

La corsa silenziosa al World Press Photo

Quest’anno il World Press Photo ha annunciato i vincitori in una maniera del tutto inedita. Due mesi prima della serata delle premiazioni, il 12 febbraio, sono stati resi noti i candidati al premio nelle sue diverse categorie.

La Fondazione cui fa riferimento il Premio ha fatto questa scelta allo scopo di suscitare un maggiore interesse, cercando inoltre di lanciare la serata sulle reti televisive, ma nessuna si è fatta avanti. Forse la fotografia non è ancora pronta per essere raccontata in televisione o la televisione non è il mezzo più adeguato dove parlare seriamente di fotografia.

La fotografia e la televisione non vanno molto d’accordo. Ieri sera sono stati resi noti i vincitori di tutte le categorie del World Press Photo, il premio da molti considerato il più prestigioso in ambito giornalistico. La Fondazione quest’anno, per la prima volta nella sua storia lunga più di cinquant’anni, ha stabilito che avrebbe reso note le nomination prima, per poi decretare i vincitori in un secondo momento. Questo secondo momento è arrivato. La suspence che si sarebbe dovuta creare, molto tipica in ambito cinematografico e musicale per fare due esempi veloci, non si è creata; la bagarre a modi “chi vincerà il World Press Photo” non si è innescata. I media, fatta eccezione per un iniziale interessamento sulle scelte dei vincitori a seguito della comunicazione delle nomination il 14 febbraio, si è spenta nella prima settimana. Nessuno ne ha più parlato.

Anche noi abbiamo avuto modo di parlarne in una puntata della nostra rassegna quindicinale di fotografia; in quell’occasione constatavamo come il comunicato stampa con cui la Fondazione aveva reso nota questa nuova modalità di comunicazione dei vincitori era stato dato con l’intento di trovare possibili accordi commerciali con reti televisive, così che l’evento non fosse più solo una serata di gala accessibile a pochi ma osservabile da tutto il mondo. A quanto pare nessuno si è fatto avanti, ed effettivamente sul sito della Fondazione qualcosa è cambiato in quanto oggi si legge “Poiché la diretta di una serata di premiazioni richiede l’annuncio in diretta dei vincitori da un elenco di candidati precedentemente divulgato, la Fondazione sta introducendo il sistema delle candidature e l’annuncio dei vincitori dal vivo quest’anno, per sviluppare possibili piani di trasmissione nei prossimi due anni”. Effettivamente per fare una diretta, basta organizzarsi per bene con la propria pagina Facebook, non è necessaria per forza di cose una rete televisiva, sebbene questa porterebbe sicuramente maggiori introiti. Insomma, è passato un po’ in secondo piano, ma hanno dovuto rimandare.

Questa scelta nuova mi aveva incuriosito, per questo motivo in questo periodo ho seguito le notizie che venivano pubblicate su diversi giornali, per capire come saremmo arrivati al giorno della premiazione, come avrebbero affrontato la questione giornalisti, critici, commentatori, così come gli stessi fotografi.

Escluso il mero show, mi aspettavo si potesse creare un certo interesse attorno alle fotografie, perché sì, le protagoniste rimangono loro in tutto questo discorso. Sapere in anticipo i nomi dei fotografi che la giuria, presieduta da Magdalena Herrera di GEO France, ha stabilito essere i migliori dell’anno, ci permette di guardare e riscoprire cose che abbiamo visto e sentito o che ci siamo persi. Perché i fotografi raccontano il mondo reale, ne selezionano una piccola parte per farcela conoscere.

Le fotografie, sempre di più ma senza troppa retorica, sono tante, troppe come si sente dire, e il mondo riesce a stento a guardare quelle di oggi, figuriamoci quelle meno recenti, anche di pochi mesi. Le fotografie si dimenticano abbastanza facilmente, fatta eccezione per le cosiddette “foto-icona”. Non è un male, certamente, le foto-icona, che tanto alimentano dibattiti ogni volta che riescono a raggiungere questo status, bisogna ricordare che lo diventano anche perché raggiungono un pubblico che normalmente non gli è concesso avere. Il messaggio o il potere di una foto-icona riesce a toccare non solo gli addetti ai lavori ma anche coloro che normalmente non ripongono nella fotografia una attenzione particolare. Nella storia di foto-icona se ne contano tante, sono quelle che si possono raccontare senza essere viste. È un esercitazione che ogni tanto mi piace fare con chi non è particolarmente attento al mondo fotografico: parlare del miliziano di Robert Capa o della foto in bianco e nero del soldato col fucile in mano ripreso nel momento in cui viene colpito è la stessa cosa, solo si usano due linguaggi diversi a seconda di chi ci ascolta.

Diverso, invece, il discorso sulla scelta della foto-icona a seconda del tipo di osservatore. Se prendiamo come esempio l’11 settembre, è facile che la maggior parte delle persone ricordi “l’uomo che cade” di Richard Drew. Più facile invece, nel caso dei fotografi, che citino le fotografie di Alex Webb o di Thomas Hoepker. In entrambe le fotografie le torri gemelle da poco colpite, fanno da sfondo ad una scena di vita quotidiana: nel caso di Webb sono presenti la moglie e il neonato mentre nel caso di Hoepker un gruppo di ragazzi che dialogano come se nulla fosse. Sono scelte che, a seconda della sensibilità di ciascuno in un modo e padronanza del linguaggio fotografico nell’altro, possono effettivamente non portare a risultati univoci sulla scelta di una foto-icona.

Tornando al World Press Photo, anch’esso negli anni è stato in qualche modo promotore di foto diventate spesso icone. Si possono ricordare la fotografia di Eddie Adams in Vietnam del 1968, quella di Nick Ut del 1973 o, facendo un salto avanti con gli anni, la fotografia di Charlie Cole del 1990 per arrivare all’ultima foto vincitrice, quella di Burnham Ozbilici del 2017. Si tratta di fotografie che ci colpiscono soprattutto per la loro immediatezza e spesso la loro atrocità. Sono proprio le atrocità o, per meglio dire, le disgrazie umanitarie, a colpirci.

Tornando a ieri sera, alla cerimonia di premiazione, non credo che in tanti siano stati in apprensione per sapere quale fosse la decisione ultima della giuria, ed è per questo che non ne parliamo direttamente; vi basti sapere che la foto che ha vinto aveva tutti i caratteri per diventare foto-icona e che verosimilmente l’avete già vista.

Grazie alle nomination, nonostante non si sia parlato di contenuti, le immagini hanno iniziato a girare, e una su tutte aveva le caratteristiche e la forza (più formali che non di contenuto) per emergere tra le altre. Guarda caso, è proprio questa ad aver vinto.

C’è dunque una distanza che andrebbe colmata tra la promozione e l’utilizzo di fotografie semplicemente forti e quelle forti anche in termini di contenuto. Il World Press Photo, che ha la possibilità di differenziarsi da altri premi, forte del suo richiamo mondiale, dovrebbe avere una responsabilità maggiore. Magdalena Herrera descrive la scelta così: “È una foto classica, ma allo stesso tempo è carica di energia e dinamismo. I colori, il movimento, è ben composta, ha forza. Ho sentito subito emozione…”. Dovrei usare io I tre punti di sospensione per commentare il commento del presidente di giuria. Insomma, ha vinto la forza sopratutto. Per essere onesti l’ultimo commento che riporta il World Press Photo, di un altro membro della giuria recita “ti riesce a dare il senso di una grande forza delle persone. A quelli che si fanno sentire”.

Il World Press Photo però bisognerebbe essere in grado di guardarlo nel suo complesso, a prescindere dai vincitori, dei secondi e terzi posti. Le poche riflessioni di cui si faceva cenno all’inizio, avevano effettivamente già analizzato, chi in un modo e chi in un altro, la scelta dei vincitori. A partire da chi ha fatto presente che non ci sono donne tra i nominati nella categoria principale, e che ce ne sono poche in generale. Il presidente o anzi, in questo caso, la presidentessa è proprio una donna, quindi alcune riflessioni o presunte tali si spengono da sole. Alcune riflessioni ponevano l’accento sul fatto che, contando sul fatto che si potessero vedere più fotografie si potesse ragionare sulle scelte della giuria a prescindere dai vincitori. Naturalmente non sono mancate critiche anche in questo senso. Michael Shaw, osserva come le immagini che concorrono a rappresentare il WPP siano impersonali e fatalistiche, non sono in grado di offrire spunti di riflessione, di instillare dubbi e domande all’osservatore.

Le somme sono state tirate nella prima settimana da parte degli osservatori, senza innescare commenti critici capaci di coinvolgere un vasto pubblico e sulla lunga durata. Vero, una cosa è guardare una galleria di cinquanta immagini in qualche minuto, un’altra è guardare tutti i film candidati agli Oscar. Il binge watching è cosa riservata alle serie tv, più raramente applicata al cinema, e il tempo che ci serve per vedere e quindi poter commentare gioca un ruolo fondamentale in questo senso, ed è forse questo uno dei motivi per cui la Fondazione non è riuscita ad ottenere un interessamento reale da parte delle reti televisive.

Ma tutto questo porta a concludere che per noi spettatori lontani da Amsterdam, dove si è svolta la serata di premiazione, tutto questo non è che un risultato positivo. La mostra itinerante che ogni anno viaggia per diverse capitali del mondo è un appuntamento fisso che, in questo caso, coinvolge sia gli appassionati che i semplici curiosi, pronti a segnarsi sul calendario la data in cui la mostra toccherà la propria città. La fotografia in televisione è difficile da raccontare; c’è anche un certo risentimento, forse, da parte dei fotografi stessi, a parlare delle proprie fotografie in televisione, dove magari vengono proiettate in ordine casuale, dove per ogni progetto viene estrapolata una singola immagine senza così permettere di cogliere il senso generale e le intenzione dell’autore. Ne sono una prova due interventi recenti di due grandi fotografi italiani, Giorgio Bianchi e Davide Monteleone, al Tg3 nel mondo con Maria Cuffaro dove i fotografi raramente parlano delle fotografie come l’intervistatrice probabilmente vorrebbe, ma pongono piuttosto l’accento sul fatto che loro sono testimoni sul campo.

* * *

Per dovere di cronaca, ecco i vincitori:

1° premio World Press Photo of the Year a Ronaldo Schemidt
1° premio Contemporary issues a Jesco Denzel
1° premio Contemporary Issues, Storie a Heba Khamis
1° premio Environment a Neil Aldridge
1° premio Environment, storie a Kadir van Lohuizen
1° premio General news, a Patrick Brown
1° premio General news, storie a Ivor Prickett
1° premio Long-Term Projects a Carla Kogelman
1° premio Nature, a Corey Arnold
1° premio Nature, storie a Ami Vitale
1° premio People, a Magnus Wennman
1° premio People, storie a Adam Ferguson
1° premio Sport a Oliver Scarff
1° premio Sport, storie a Alain Schroeder
1° premio Spot news a Ronaldo Schemidt
1° premio Spot news, storie a David Becker