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Gli attacchi contro il senatore leghista tracciano un’equivalenza indebita tra identità etnica e appartenenza politica, mancando completamente il punto della questione.

Tre giorni dopo la notizia della sua elezione a senatore, il battage social-mediatico su Toni Iwobi — il primo senatore nero della storia della Repubblica, eletto con la Lega a Bergamo — non si è ancora placato.

Dopo un giro di ovvie ironie sul fatto che sia stato un partito esplicitamente xenofobo ad aggiudicarsi questo primato di inclusività culturale, mercoledì è intervenuto nel dibattito Mario Balotelli, che ha commentato su Instagram: “Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!”

Ieri ha dato ragione al calciatore anche Cécile Kyenge — eurodeputata del Pd, prima ministra nera nella storia repubblicana con il governo Letta, oggetto di una serie disgustosa di attacchi razzisti proprio da parte della Lega, Salvini incluso — che ha commentato:

Che Toni Iwobi provenga dalla Lega è un problema per lui stesso e non per me. Deve essere stato molto coraggioso e devoto nel sentire i suoi leader esprimersi nel modo in cui lo fanno contro gli immigrati. Anche lui si è spesso mostrato perfettamente allineato sulla loro linea d’esclusione. Spero che il suo nuovo status di senatore lo porterà ad esprimersi sul tema immigrazione con cognizione di causa.

Sui social, il paragone che è andato per la maggiore subito dopo la notizia dell’elezione di Iwobi è stato quello con Stephen, il terribile capo della servitù interpretato da Samuel Jackson in Django Unchained. Insomma, un nero privilegiato che odia gli altri neri.

Per la Lega, invece, è stata ovviamente un’occasione d’oro per rovesciare le accuse di razzismo sul campo avversario — secondo uno schema retorico già ampiamente collaudato dal segretario del Carroccio. Così, gli stessi che davano dell’orango a Cécile Kyenge e che un mese fa giustificavano la tentata strage di Luca Traini a Macerata scaricando la colpa sull’“immigrazione fuori controllo,” ora cercano serenamente di accreditarsi come paladini dell’anti-razzismo.

Secondo i risultati del Barometro dell’odio, un’iniziativa di monitoraggio intrapresa da Amnesty International Italia durante la campagna elettorale per tracciare l’andamento dei discorsi d’odio — ossia ogni affermazione che inciti “al pregiudizio, all’odio, alla paura, alle discriminazioni o persino alla violenza contro una persona o un gruppo di persone” — il 95% delle frasi xenofobe è arrivato da parte della coalizione di centrodestra, Salvini in testa. Da Bossi a Buonanno, passando per Borghezio, per raccogliere tutte le esternazioni razziste degli esponenti leghisti in più di vent’anni di esistenza del partito non basterebbe un dizionario enciclopedico (qui un paio di tentativi non esaustivi).

Siamo tutti d’accordo, quindi, che da questo punto di vista l’elezione di Toni Iwobi non significa nulla: la Lega è e rimane un partito chiaramente intriso di xenofobia e razzismo. Tuttavia, è necessario fare qualche considerazione in più.

Innanzitutto, Iwobi — nato in Nigeria, in Italia dal 1976, imprenditore informatico — milita nella Lega da venticinque anni (praticamente da sempre), ed è responsabile del partito in materia di sicurezza e immigrazione dal 2014. Nel 2015, intervenendo sul palco di Pontida, in un episodio che sarà ricordato nei libri di storia del futuro per descrivere la società post-parodica in cui viviamo, disse:

“Se razzismo vuol dire pensare prima agli italiani, allora io lo sono orgogliosamente.”

https://www.youtube.com/watch?v=AzO5H8UyyVE

È un po’ tardi quindi per sorprendersi oggi: la Lega sfrutta da anni Toni Iwobi come grimaldello per rigettare le accuse di razzismo. La coerenza logica è la stessa di chi dice “non sono razzista, ho un sacco di amici neri,” ma a Iwobi, che dobbiamo presupporre capace di intendere e di volere, va evidentemente bene così, e quindi, magari, dovremmo smetterla di provare a insegnargli cosa dovrebbe o non dovrebbe fare sulla base del colore della sua pelle (specialmente se siamo bianchi, come il sottoscritto), con l’ingenuo presupposto che l’appartenenza politica — ma anche sociale, etnica, culturale — possa essere pre-determinata semplicemente dal luogo di nascita e dal patrimonio genetico.

Come ha scritto Ndack Mbaye su The Vision, l’essere nero di Toni Iwobi è “una banalità che i contendenti della scena politica sembrano non prendere in considerazione. È una battaglia che si gioca sul corpo, lo spirito e la portata politica dell’essere neri, non semplicemente dell’apparire come tali. A deciderne le regole, però, sono altri.”

Leggere i commenti sul battibecco con Balotelli, continua Mbaye, richiama un’altra scena di Django Unchained — quella in cui due schiavi neri lottano tra di loro per il piacere del padrone bianco.

Superare per un momento l’etichetta di nero — e nient’altro — appiccicata da una parte e dall’altra sull’identità di Toni Iwobi permette anche di cogliere un punto politico più importante, che riguarda la posizione subdola della Lega in materia di immigrazione. Possiamo ritenere che si tratti di ipocrisia e di razzismo mascherato — sicuramente in gran parte lo è — ma sarebbe ottuso non riconoscere che la xenofobia leghista non si basa su un rifiuto indiscriminato e ontologico dello straniero in quanto straniero, ma sulla demarcazione di confini rigidi e quasi invalicabili nella definizione della “legittimità” degli individui all’interno del territorio statale.

Quando tuona contro l’immigrazione “clandestina,” Salvini non ricorda mai che la legge che definisce lo status di clandestinità è ancora quella che porta il nome del fondatore del suo partito, ed è la principale ragione per cui l’immigrazione regolare in Italia, se si proviene dai paesi sbagliati, è praticamente impossibile. Secondo lo stesso principio, anche qui, con un apparente paradosso, Salvini può dirsi favorevole ai corridoi umanitari “dalle zone di guerra.” Il nodo centrale è giuridico, e non investe soltanto la politica della Lega, ma le leggi dello stato e la posizione assunta anche dalla maggioranza di centrosinistra — in testa il ministro Minniti — nel corso dell’ultima legislatura: tracciamo una linea di confine arbitraria tra chi è legittimato ad autodeterminarsi e chi no, tra chi potrà vedersi riconosciuto lo status di rifugiato — dopo uno o due anni di permanenza in un centro d’accoglienza — e chi sarà costretto a entrare in clandestinità per evitare il rimpatrio.

Toni Iwobi, che è arrivato regolarmente in Italia con un visto da studente, si colloca “al di qua” di questo confine, ed è da questa posizione di privilegio che il suo essere leghista non presenta alcuna contraddizione con il colore della pelle. È un privilegio che lo stesso Iwobi rifiuta di ascrivere alla fortuna, ma, quasi con etica protestante, da self made man statunitense, al proprio impegno personale. Come a dire: io mi sono meritato di stare qui, dovete meritarvelo anche voi, altrimenti #stopinvasione.

Non è una posizione isolata: un fronte compatto degli “stranieri” in Italia — indipendentemente dalle comunità di appartenenza e dalle storie personali di ciascuno — ovviamente non esiste in quanto soggetto politico, e sarebbe assurdo pretenderlo. L’atteggiamento di Iwobi — che da immigrato di lunga data guarda con sospetto, quando non con disprezzo, ai “nuovi arrivati” — si riscontra abbastanza di frequente tra prime generazioni “di vecchia data” e seconda generazione di immigrati in Italia, che proprio per le difficoltà affrontate nel proprio percorso di integrazione temono che la “nuova ondata” guasti in qualche modo l’equilibrio. Viceversa, capita anche che le seconde generazioni, integrate e meno legate al trauma della migrazione, orientino esplicitamente il proprio consenso politico a destra. O per lo meno è quanto emerge da un sondaggio di Fondazione Moressa che aveva entusiasmato la stampa conservatrice a meno di una settimana dal voto e che era stato il punto di partenza di un pezzo vox populi di Cristina Giudici per Linkiesta.

Si tratta di un problema non nuovo e ampiamente studiato: le nuove condizioni di lavoro di migranti appartenenti a minoranze etniche in Europa impedisce sistematicamente la formazione dei network di coesione necessari per lo sviluppo di una consapevolezza di classe. Uno studio del dr. Bin Wu per il Centre for Chinese Migration Studies dell’Università di Nottingham (2016), che parte proprio citando il caso italiano di Prato, analizza per esempio come i meccanismi di sviluppo di coesione rendano drasticamente più complesse le dinamiche di lavoro per gli immigrati cinesi nel Regno Unito. Ma è proprio la mancanza di sviluppo di un’idea politica che inevitabilmente porta chi poi si trova ad essere un laoban (capo, indipendente) invece che un dagongzhai (lavoratore, subordinato) ad abbracciare politiche conservatrici o reazionarie. Wu conclude il proprio studio creando una linea diretta che collega la mobilità lavorativa all’impossibilità della creazione di una coscienza di classe, con il mantenimento dello scollamento sociale che alimenta a sua volta le dinamiche reazionarie dei partiti di destra e non solo.

È su queste linee di frattura che dovrebbe innestarsi una sensata critica politica a Toni Iwobi — che è poi la stessa che si deve fare a tutti gli altri politici leghisti, a prescindere dalla provenienza (quindi sì, anche alla militante leghista albanese Adriana Janku): ribattere alla logica dell’esclusione e delle demarcazioni arbitrarie non con un’indebita equivalenza tra appartenenza politica e identità etnica, ma con i valori di un’etica convintamente solidaristica.

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