By the Deep Sea: il viaggio di Federico Albanese nelle profondità del pensiero

I simbolismi e le atmosfere malinconiche di By the Deep Sea rimandano a un rarefatto substrato primordiale, e l’intenzione pare essere quella di andare ancora più a fondo rispetto ai lavori precedenti.

By the Deep Sea: il viaggio di Federico Albanese nelle profondità del pensiero

Abbiamo parlato con Federico Albanese del suo ultimo album, By the Deep Sea, uscito il 23 febbraio scorso per Neue Meister/Berlin Classics.

Federico, By the Deep Sea, uscito il 23 febbraio, si definisce quasi come il naturale proseguimento di The Blue Hour: i simbolismi, le atmosfere malinconiche rimandano a un rarefatto substrato primordiale, e l’intenzione pare essere quella di andare ancora più a fondo rispetto al risultato dei tuoi lavori precedenti. Il percepito all’ascolto è che di fatto tu stia costituendo un corpus in cui le parti non sono indipendenti, anzi. E che arrivino e siano mosse come da un processo generativo, profondo, continuo. Ma qual è – se c’è – il fine ultimo?

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By The Deep Sea” nasce da un desiderio profondo di tradurre in musica momenti essenziali della mia vita. Come dici giustamente tu, è un processo generativo, un’evoluzione che muove dal tentativo di raggiungere lidi più profondi del pensiero, cose difficili da capire o esprimere a parole. Negli anni mi sono accorto di quanto la musica sia uno strumento essenziale per scavare più a fondo: è possibile esprimere cose che vanno anche al di là della ragione, aspetti primordiali appunto, e istintivi.

Da anni ormai vivi a Berlino, come mai questa scelta? Quanto è importante la città, il paesaggio, il flusso sociale in cui ti muovi? Anche a livello di etichetta (Neue Meister/Berlin Classics). E qual è la risposta del pubblico tedesco – più in generale, nordeuropeo?

Fondamentale. Mi sono trasferito qui circa sei anni fa, ed è qui che ho iniziato il mio percorso. Avevo tante idee e tanta musica scritta ma era solo per me, quasi un segreto. Berlino mi ha aiutato ad aprirmi verso l’esterno. Ho trovato porte aperte e tanto interesse. In generale lo definirei un ambiente più stimolante rispetto a quello della Milano di sei anni fa, e tuttavia anche più competitivo. Naturalmente però ci sono più spazi e più possibilità.

La risposta del pubblico qui è ottima, è “allenato” alla musica sperimentale o, più in generale, alle novità. C’è una sorta di fermento costante: un desiderio di scoprire nuove cose. Ho la sensazione che a livello artistico sia sempre stato un po’ così nel nord dell’Europa, dove ho trovato molta più apertura e interesse verso lo sconosciuto.

Ciò che componi viene generalmente definito come parte dell’enorme categoria della musica moderna/neo-classica. È davvero così? Ma cos’è la musica neo-classica nel 2018?

Neo-Classica è un termine che in parte è giusto, in parte no. Di fondo non è musica classica: la definirei più musica strumentale moderna. L’uso del pianoforte, almeno nel mio caso, è funzionale alla musica in sé, e non ruota tutto intorno allo strumento. Anche il pubblico è variegato, le venue dove si suona sono sempre diverse – dal teatro, al club, alla chiesa. Credo che questo sia ancora davvero difficile da definire, specialmente per noi che ci siamo “dentro.”

Il titolo stesso, By the Deep Sea, rievoca il celebre verso del poeta romantico sette-ottocentesco Byron. Perché questo tributo e perché la scelta di questo testo in particolare?

Mentre lavoravo alla stesura del disco, leggevo molta poesia. Trovo così affascinante e di grande ispirazione vedere come menti straordinarie riescano a esprimere meraviglie con le parole. È un po’ quello che provo a fare io ma attraverso note e melodie. Sono incappato in un poema di Byron (The Sea) e appena ho letto questa frase, “by the deep sea”, mi sono come illuminato. Era esattamente quello che cercavo per esprimere un’idea di lontananza e vicinanza allo stesso tempo. Una sorta di giusta distanza che ti permette di osservare tutto da un punto di vista abbastanza vicino – ma non del tutto – da poterlo descrivere e tradurre in musica.

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Come lavori fisicamente alla scrittura e alla composizione di un pezzo? Qual è l’approccio?

Spesso nasce tutto da sessioni di improvvisazione, in cui le cose si evolvono naturalmente. La cosa importante per me è cercare di pormi dei limiti, o meglio, avere chiaro in testa quello che voglio descrivere, comunicare. Una volta fatto ciò, lascio che il brano si evolva da sé. Il bello della musica strumentale è che di fondo non ci sono limiti, sì, ma è essenziale porseli se si vuole riuscire a descrivere un’emozione precisa e forte, o un momento importante della propria vita.

A livello di strumento: qual è il tipo di pianoforte/synth che preferisci, come è stato registrato l’album – quanto è stato “prodotto” – e ci sono state particolari collaborazioni esterne?

Il mio strumento preferito al momento è un “pianette” che ho in casa. È un piccolo pianoforte verticale con la cassa armonica sviluppata verso il basso e non verso l’alto. Un tempo erano considerati i pianoforti da viaggio. Ha un suono molto leggero e cristallino, molto adatto alle atmosfere notturne. Alcuni brani del disco li ho registrati con questo strumento. La “produzione” per me è parte integrante del comporre in sé. Nel mio studio è sempre tutto pronto e cablato, e l’approccio compositivo e sempre live. Molti brani del disco sono uniche sessioni ed è tutto registrato nello stesso momento.

Qual è stata la tua formazione e il tuo percorso di avvicinamento alla musica? Perché l’hai scelto? Ti dedichi solo a questo nella vita? Insomma, chi è Federico Albanese oltre i master degli album che ascoltiamo.

Credo sia stata mia madre in fondo a inculcarmi l’idea che la musica sia una cosa importante, da venerare e studiare, e che mi avrebbe aiutato nella mia crescita personale. Così ho studiato pianoforte da bambino fino all’età di circa 12 anni. Lo odiavo, non ne capivo molto il senso. L’ho abbandonato a quell’età, mentre i miei interessi musicali viravano sempre più verso punk, hardcore, stoner, rock. Suonavo il basso in varie band, mi affascinava il jazz, ho studiato clarinetto per qualche anno. È stata una strana energia, un desiderio di pace, che mi ha riportato a sedermi al piano. Lì ho finalmente imparato a comprenderlo, renderlo mio, apprezzarlo. E da lì è nato tutto.

Come funziona un tuo live set?

Pianoforte ed elettronica. Processo il suono del piano dal vivo per creare diversi tessuti sonori. Ho vari pedali, delay, pitch shift, looper e svariati sampler con cui campiono i suoni.

Progetti futuri?

Per ora il tour mi basta… dopo ci penserò!

Artisti di riferimento?

Cambiano spesso. Al momento: Nino Rota, Lucio Dalla, Jon Hassel, Keith Jarrett e i Traffic.

Raccontami un aneddoto riguardante un concerto o la genesi dell’album o in generale della tua carriera artistica che ritieni fondamentale o cui sei particolarmente legato.

Womad Festival, Bath, agosto 2016. Avevo un volo da Berlino alle 5 di mattina e il mio piano del giorno diceva che il mio set sarebbe stato alle 11. Arriviamo sul festival site prestissimo. Non c’era un’anima. Verso le 10 mi avvio verso l’unico palco del festival che mi sembrava vagamente attivo e chiedo. Nessuno sa darmi informazioni in merito al mio set, e passano i minuti. Inizio a pensare che forse c’è stato un errore e non devo suonare. Invece no. Arriva uno dei responsabili e mi dice che il mio set è alle 11PM, a chiudere tutto il festival, open air, con migliaia e migliaia di persone. E io che pensavo a un matinée con poca gente e tanto caffè… Beh è stata una delle esperienze più incredibili della mia vita.


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