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Hati Hati Yuki O, un viaggio alla ricerca dei rituali balinesi. Reportage in tre puntate.

Bali è un’isola dell’arcipelago indonesiano che si trova a 15 ore di volo dall’Italia: per arrivarci bisogna attraversare un fuso orario di sette ore, rincorrendo il tempo sullo stesso verso di moto della terra. Ci muoviamo a est del mondo, dove i surfisti cavalcano le onde dell’Oceano indiano mentre gli incensi devoti a Ganesh, Shiva e Parvati profumano le spiagge bianche e nere dell’isola.

A Bali ci sono templi ovunque. Ogni casa ne possiede uno, privato, a uso familiare. Per strada ci sono templi ogni venti passi, piccoli e grandi. Il tempio è il luogo di preghiera e di condivisione, per cui, oltre a quelli familiari, troviamo in scala anche i templi di quartiere, i templi della comunità, i templi atavici le cui ricorrenze chiamano l’intera popolazione di un’area della provincia. Ci sono cerimonie ogni giorno, e regolano il calendario quotidiano degli abitanti.

— Ci vediamo domani? — “Domani sarò impegnatissimo, ho una cerimonia familiare, con la famiglia di mia moglie, poi ho i preparativi per il tempio e devo tornare al tempio grande perché nel frattempo ci sono le cerimonie della comunità. In tutto questo, devo trovare il modo di passare dal warung (il warung è il ristorante), per fare un paio di ore di lavoro. Noi siamo cinque piccole comunità qui, oggi tocca a noi dormire al tempio.” Così ci ha risposto Jack.

Momento di preghiera durante il rito di purificaziona a Purnama Beach, Sukawati
Momento di preghiera durante il rito di purificazione a Purnama Beach, Sukawati

A volte si ha l’impressione che il presente, il passato e il futuro abbiano una misura diversa. Il futuro si trova a un passo dal presente, la vita la senti pulsare minuto dopo minuto.

La morte cammina sulle gambe di una Vacca per tornare a Shiva, laddove siamo venuti, per ricominciare un ciclo e reincarnarci nel prossimo.

A Sud non ho incontrato surfisti spirituali, investiti dell’aura guru che vola sulle onde, dove il mare e l’acquasanta sembravano quasi avere la stessa provenienza. Questo è solo un maledetto retaggio di Point Break. Il Sud di Bali è fatto di una miriade di warung, che comprendono anche gli hamburger all’americana, dove il prosciutto non è prosciutto, il formaggio non è formaggio e il sugo di pomodoro è solo ketchup. La spiaggia, nei pressi di Canggu, era piena di bancarelle come se il mercato di Bangkok si fosse trasferito lì per il fine settimana, con tanto di cavallette croccanti in riva al mare per un aperitivo frizzante.

Purnama Beach, Sukawati
Purnama Beach, Sukawati

C’era un folto numero di persone, uomini e donne, con un fisico incredibile, alti e possenti come Avatar, ognuno con una tavola da surf. Ogni tanto guardavo in basso, verso la tartaruga che non mi ritrovo scolpita nella pancia, e con una piccola smorfia mi abbandonavo al rumore del mare, ad ammirare chi pregava sulle colonne di un tempio costruito a ridosso dell’acqua. Dopo un paio d’ore mi è venuta voglia di tornare a Ubud, definito il centro culturale dell’isola, la città degli artisti.

Anche Ubud è una città ricca di templi, ma con una consapevolezza del turismo diversa che altrove, basata sul fascino artistico e spirituale — e senza il mare. Ci sono risaie ovunque, nascoste dai warung, dietro ai grandi templi della comunità. A un passo dal tuo sguardo c’è una donna che prega, un uomo che mangia quadratini di tofu, un venditore ambulante, una vecchia in un campo di riso che sbatte fasci d’erba su una cesta. Le donne e gli uomini fanno gli stessi lavori. È facile trovare una donna con chiodi e martello in mano a rifinire uno steccato di bambù, un uomo al suo fianco che le passa un secchio di cemento per rastrellare insieme un muro grezzo.

Un contadino nelle risaie alle spalle di Ubud
Un contadino nelle risaie alle spalle di Ubud

In questa cornice di cielo, vagando tra le offerte alle divinità disseminate per strada, dove la gente prega ad ogni orario e le cerimonie bloccano il traffico delle strade, cercavo un Kecak autentico e un Barong che mi mostrasse le rughe dei vecchi della città.

Più volte ho partecipato ai Kecak e ai Barong turistici, ma di quelli autentici non c’era traccia, tanto che all’inizio pensavo di aver sbagliato viaggio. Su un foglio, che ti davano insieme al biglietto di Kecak, c’era scritto che il rito del Kecak non esisteva più e che a partire dal 1930 un’incursione di artisti europei, turisti dell’Est, cristofori colombi provenienti dalla Germania e dall’Olanda, avevano aiutato i balinesi a convertire i rituali in spettacoli, aggiungendo delle storie, attingendo dalla mitologia indonesiana che arricchisce il panorama religioso e miscredente di tutto l’arcipelago, affinché lo spettacolo fosse fruibile allo stesso modo di uno spettacolo occidentale, tagliato a misura di turisti.

Kecak a Uluwatu

Leggendo, mi ero abbattuto. Bali è il centro della magia, bianca e nera, con un una quota di gente che immerge le mani nelle acque della luce e un quota d’altra che si muove nelle ore piccole della notte a contatto con gli spiriti che vengono dalle isole selvagge del tempo. Ma negli spettacoli che ho visto non c’era traccia di questa intensa spiritualità. I posti a sedere, in gran parte, erano gremiti di gente che parlava di sottofondo, denocciolando arachidi e ridendo delle maschere che si susseguivano, momento dopo momento della storia danzata e suonata, come se ci si trovasse davanti a scimmie che hanno imparato a dire “goodmorning.”

Mi sentivo costernato, per loro e per me. Come aveva fatto una popolazione così ricca di spiritualità a permettere agli artisti europei di venire, nella loro terra, a cambiare le sorti delle loro tradizioni, con lo scopo di spillare bigliettoni da centomila rupìe (rupìa è la moneta balinese), per degli show in cui il grande Barong (lo spirito del bene) sconfigge la potente Rangda (la strega del male), in una serie di storie in cui il gigante del male viene sconfitto dalla donna arciere, dopo il rapimento della fanciulla, in cui il liberatore mascherato interviene poco dopo la discesa di una scimmia bianca, come il deus ex machina delle tragedie greche?

E dove sono finito io?

Avevo visto Baraka, il film di Ron Fricke, dove un gruppo di uomini sedeva ai piedi di uno splendido tempio, replicando un rito di intensissima spiritualità, atavica e ancestrale, che toccava il cuore del mondo, e ora mi ritrovavo di fronte alla spettacolarizzazione di un rituale, miscelato a storie, accanto a un russo che rutta la Coca-Cola dopo una bustina di banana fritta? Dove ho sbagliato? Dove sono i vecchi?

Ho passato i primi quindici giorni a chiedere alla gente. E la gente ti diceva che sì, è vero, non abbiamo più un Kecak e un Barong autentico. — Ma com’è possibile? “Le cose cambiano di generazione in generazione,” rispondevano. Se vuoi vedere un Kecak, stasera ce n’è uno al tempio sulla strada principale di Ubud. E c’è un Barong al Palazzo Reale, un Legong sulla Monkey Forest, uno spettacolo di Teatro delle Ombre sempre in fondo alla strada. Li ho visti tutti. E non una volta sola!

Dopo la terza volta che vedevo un Kecak, un Legon e un Barong ho deciso di raggiungere Nusa Penida, un’isola a sud di Bali, che si dice essere Bali sessant’anni fa. La foresta di Nusa Penida è una folta coltre di alberi che divora l’aria fino all’ultimo scoglio prima dell’acqua del mare. La natura aggredisce lo spazio e in quella densa foresta di alberi e di piante sempreverdi si dice sia nato il Barong, lo spirito del bene. E da quella stessa foresta provengono anche tutti gli spiriti del male che incombono su Bali e sul mondo indonesiano.

Ogni cosa, diceva un vecchio balinese per strada, è fatta di bene e di male. Non esiste una cosa che è solo bene e un’altra che è solo male.

Il primo arrivo e la prima passeggiata nella foresta a Nusa Penida mi hanno subito intimato di tornare indietro. “Non sei pronto!” — mi ha detto — “Il cielo diventa nero tra pochi minuti, torna indietro prima che gli alberi ti portino con le loro radici verso il mondo oscuro della selva più nera.” Con un blocco fisico alla bocca dello stomaco, che a momenti mi fermava anche il respiro, ho fatto dietro front verso casa. Una stanza che aveva solo il letto. Il bagno era in comune, fuori e all’aperto. Anche gli animali avevano un verso diverso da quelli di Bali e i gechi sembravano parlarti all’orecchio.

La gente del villaggio era meravigliosamente accogliente, alcuni avevano gli occhi spiritati delle maschere di Barong e la prima notte non sono riuscito a dormire. Ero convinto che sarebbero venuti a prendermi, forse perché ero un intruso, perché ce l’avevo scritto in faccia che non ero lì per farmi gli affari miei. Il giorno seguente la montagna di Nusa Penida, con pochissime strade, articolate come montagne russe, si è rivelata in tutta la sua natura. A destra la roccia dura che mi proteggeva, a sinistra il precipizio come il decimo piano di un palazzo, una caduta profonda nel vuoto, come a ricordarti che la giungla selvaggia di Nusa Penida è così, da un lato un ventre di madre, dall’altro la morte negli occhi con un soffio d’aria.

Sono sceso dalla montagna che mi chiedevo il senso di questo viaggio. Con Federica, che mi è stata vicina durante tutto il viaggio balinese, ci siamo seduti a un warung, a bere Bintang, la birra locale. Penso che in questo viaggio alla ricerca dei rituali e delle sonorità della Bali profonda, l’animo bianco di Federica mi abbia aiutato parecchio, aprendomi porte fondamentali.

Al bancone del warung c’era un ragazzo bellissimo, dagli occhi profondi e una ingenuità frizzante, che si presenta come Jack per gli amici. E Jack è rimasto. È stato grazie a lui che abbiamo assistito al nostro primo Odalan. Lì, abbiamo capito che ci sono più strati e diverse profondità. C’è una Bali per i turisti warung, una Bali per i turisti surfisti, una Bali per i turisti yogi, una Bali per i turisti del trekking e c’è una Bali dei balinesi. Questa si nasconde dietro le pareti trasparenti del giorno, in un ramo spezzato, sotto una pietra, ad ogni angolo nascosto delle strade, che danza sulle note musicali di un Gamelan, sulle gambe di un Barong autentico e ancestrale.

Nella prossima puntata: ci sposteremo da Nusa Penida a Bali alla ricerca del Gamelan. Cos’è il Gamelan? È un’entità o solo un modo per definire un ensemble di strumenti tradizionali dai suoni particolarissimi? Ce ne parlerà l’Anom Baris di una delle comunità di Ubud, uno dei guru maestri suonatori di questo strumento, in una speciale intervista di Yuki O per the Submarine.

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Angelo Sicurella (Palermo 1981) è un cantante e musicista impegnato nell’ambito della musica elettronica, del synth pop e della musica sperimentale, nella combinazione di materiali musicali del repertorio della musica classica e della musica sacra e profana con la musica elettronica.

Yuki O a Gili Air
Yuki O a Gili Air

Il suo primo lavoro solista, Orfani per desiderio, è uscito nel corso degli anni 2015/2017, diviso in tre capitoli musicali, seguiti da una trilogia video, diretta dalla regista palermitana Manuela Di Pisa. L’album racconta la vicenda accaduta nel 2013 al largo delle coste di Lampedusa, quando 366 persone morirono in preda a un mare calmo. Il 17 Novembre 2017 è uscito YUKI O, il suo primo LP.

“Da tempo guardavo a Bali come una meta spirituale e ricca di suoni. Questo viaggio è stato importante anche perché ho avuto modo di reperire molto materiale sonoro, dai Gamelan che suonavano per le diverse performance di danza tradizionale, ai rindìk del Teatro delle Ombre, alle conoscenze dirette con musicisti, attori e danzatori balinesi che mi hanno permesso di entrare un minimo in confidenza con i loro strumenti e la loro concezione del mondo dell’arte e della musica. Spero di ritornarci presto e di continuare il lavoro iniziato con alcuni musicisti del luogo. Il materiale che ho raccolto è già un ottimo punto di partenza per porre le basi di un nuovo lavoro, sia esso un disco o uno spunto per le musiche di uno spettacolo di danza contemporanea.”


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