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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

Questa settimana abbiamo intervistato Claudio Aresi, vincitore di una menzione d’onore al Premio Voglino di quest’anno, durante il Festival della Fotografia Etica di Lodi.

Ho provato a immaginare il punto di partenza del tuo lavoro, ma ho come la sensazione che si tratti del compimento di una idea chiara e precisa sin dall’inizio. Il punto di partenza insomma è già Rogue-SP40, nella sua forma di rivista?

Si tratta di una tua idea sbagliata (ride). A parte le battute, prima di ogni cosa ci tengo a precisare che non sono fotografo di professione, lo faccio per passione.

Sento particolarmente mio il codice della street photography — ed è così che in realtà è iniziato questo progetto, con un paio di foto scattate sulla strada. L’occasione che mi ha fatto pensare a questo lavoro è stata un po’ casuale, durante un evento in cui Isoke Aikpitanyi, vittima della tratta di origini nigeriane, presentava il suo libro Le ragazze di Benin City – La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia. Il suo racconto mi aveva profondamente colpito al punto che, riprendendo in mano le poche foto che avevo scattato, decisi di iniziare a lavorare ad un progetto vero e proprio.

L’origine del mio lavoro è questa e, per rispondere alla tua domanda, direi che Rogue-SP40 è più un percorso che un’idea di un lavoro precostituito. Questi sono gli inizi, il resto è stato un divenire: non sapevo ancora come potesse essere la situazione reale in strada e non sapevo neanche quanto mi sarei potuto esporre. Per questo motivo ho fatto diverse pause, in parte perchè la situazione in strada può essere anche pericolosa e in parte per motivi legati alla mia vita privata.

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Sei l’unico autore di questo progetto, eppure, ironicamente, nell’indice è riportato sempre il tuo nome negli articoli proposti.

Si, l’ho fatto completamente da solo, fatta eccezione per alcuni testi o citazioni ripresi da altri autori — tra cui proprio Isoke — che per me sono stati fonte di ispirazione. Per il resto, grafica, foto, impaginazione ho fatto da me.

Queste citazioni, contributi esterni, mi sono serviti anche perchè con le ragazze in strada è difficile instaurare un qualsivoglia tipo di rapporto: quando provavo a fare domande dirette si tiravano indietro. Hanno paura, molta paura, ed è per questo che risulta difficile ricevere informazioni direttamente da loro. Le informazioni, a parte i testi, le ho cercate altrove e per vie traverse: per esempio, il paninaro sulla strada!

Quanto è durato dunque questo lavoro?

Tra tutto quattro o cinque anni.

Rispetto a quanto dicevi, devo però constatare che alcune fotografie sono ravvicinate, non si tratta di scatti propriamente rubati, per come generalmente viene intesa la street photography. In alcune fotografie sembra ci sia una certa partecipazione.

Come ti dicevo prima il rapporto con loro è complicato, perchè sono a rischio e hanno paura: sanno perfettamente che fanno parte di una tratta.

Quello che dici tu è in parte vero, ho cercato di realizzare le fotografie come se fossi un cliente, soggetti che per ovvi motivi non ho potuto fotografare direttamente.

Qualche scatto è fatto all’interno di una macchina. É stato differente il grado di confidenza che sei riuscito ad instaurare le ragazze?

Sono riuscito solo in un caso ad instaurare un bel rapporto, si era creata una empatia particolare. Per il resto, si chiacchierava di questo e quest’altro, senza entrare nei dettagli, per tornare a casa senza neanche una foto.

Bisogna tenere presente che sotto certi aspetti si tratta di ragazze furbe, molto furbe, lo diventano per necessità; hanno capito che l’unico modo per uscire dalla loro situazione sono i soldi. Per farlo si creano una maschera, mettono una barriera che è difficile da abbattere. Molte mi hanno raccontato che non arrivavano dalla Nigeria, cosa che invece è risaputa.

Avrei voluto approfondire il mio lavoro con almeno una ragazza, ma onestamente non me la sono sentita, per due motivi: uno riguarda loro, nel senso che rischierei di metterle in pericolo, e uno invece riguarda me personalmente, la mia vita privata insomma.

È successo che le abbia accompagnate fino al loro appartamento; le ragazze che lavorano sulla Provinciale abitano quasi tutte in un appartamento a San Giuliano.

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Parliamo del libro. Si tratta a tutti gli effetti di una rivista. Quando e come ti è venuta l’idea?

Una volta fatto il lavoro ho pensato a come impacchettarlo, come presentarlo. La prima soluzione a cui ho pensato è stata il libro, anche se non mi interessava in una forma classica, lo scopo del lavoro così facendo poteva arrivare, ma solo fino a un certo punto. Ho pensato che la fotografia sociale sia rigorosa, abbia delle regole, e non facendo io il fotografo di professione e non avendo neanche una formazione in tal senso, non avevo alcune imposizione rigida, nessuna particolare costrizione. Per intenderci, nella rivista alcune fotografie sono presentate come pubblicità, con il prezzo stampato sopra.

Sono convinto inoltre che lo spettatore medio di mostre che affrontano questo tipo di temi sia solitamente una persona con una cultura medio-alta. Io volevo rendere tutto un po’ più pop, alla portata di tutti. Secondo me la rivista era l’ideale per raggiungere questi obbiettivi.

È venuta in seguito l’idea di fare il verso a Vogue. Rogue è una rivista che parla a tutti di problemi reali. Mettendo le due cose in paragone emerge secondo me una certa distanza.

Che opinioni hai ricevuto rispetto al tuo lavoro?

Diverse, molto diverse. Tieni presente che la prima mostra l’ho fatta a Binasco, un comune che incrocia la SP40, e ultimamente ho esposto all’Archivio Fotografico Italiano di Castellanza. In questa seconda occasione era presente un gran numero di persone appassionate di fotografia, le opinioni riguardavano il lavoro nel suo complesso, sia sulla problematica affrontata che sulle fotografie. A Binasco è stata una cosa molto diversa invece.

Mi incuriosiscono di più i commenti ricevuti nella prima occasione, riguardo la mostra di Binasco.

Ti dico solo che una signora sulla settantina, di quelle che parlano sempre e solo in dialetto ha esclamato “Oh, Signore, oh, Signore!”. Molte persone mi osservavano, sentivo di essere giudicato. Ho la sensazione che non farò più mostre come questa.

È una pubblicazione in vendita?

Si tratta di una pubblicazione in bassa tiratura ad uso personale per adesso,  anche perché sto valutando di continuarlo, magari affrontando la problematica da altri aspetti.

Mi hai parlato delle impressioni ricevute dai non addetti ai lavori. Cosa ti dicono i professionisti invece, e come ti poni nei riguardi dei giudizi che arrivano?

Posso certamente affermare che con i professioniti è molto più semplice, perchè si parla innanzitutto di fotografia, prima dei soggetti delle fotografie. Si può parlare di un lavoro piuttosto che un altro ma sempre di fotografia si parla. Con le persone non addette parlo invece del problema.La differenza sostanziale è questa.

Alcuni professionisti hanno storto il naso; nel momento in cui vedono grafiche, scritte o altro ancora sopra le fotografie disapprovano il più delle volte. Pensa che ho inserito un capitolo con immagini “scattate” con Google Street View: certo, non è fotografia pura, ma siamo nel 2017, esiste internet, Facebook, Instagram, e il linguaggio fotografico sta cambiando. Quello che ti posso dire è che ascolto sempre volentieri i consigli, ma allo stesso tempo mi sento libero, non mi sento all’interno di meccanismi statici e dunque a me piace comunque quello che faccio e anche come lo faccio.

Ti posso dire un’altra cosa a tal proposito?

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Certamente.

Questo lavoro è stato un percorso, una esperienza di vita e fotografica. Quando ho deciso di fare un progetto a lungo termine, nella mia testa avevo in mente di realizzare qualcosa di un certo livello.

Pensa che per un anno non ho mai fotografato, dopo aver fatto il mio unico workshop di reportage, una due giorni. Quell’esperienza mi aveva sconvolto a tal punto!

Perché?

Perchè facendo altro nella vita non avrei potuto attraversare il mondo e raccontare storie come nelle immagini che mi avevano mostrato. È questo il motivo per cui ho smesso di fotografare per un anno. Poi ho scoperto che c’è molto da raccontare anche dietro casa.

Tornando al progetto sono questi i motivi per cui il progetto è durato così a lungo. Torno a dire che è stato un progetto di vita oltreché fotografico, ci è voluto del tempo prima di chiudere il cerchio: trovare un tema, svilupparlo, dargli una forma.

Il tuo futuro fotografico cosa prevede?

Sicuramente altri progetti. Ne sto facendo uno senza macchina fotografica (ride), seguendo i venditori di rose a Milano.

Facciamo che quando lo finisci ce lo riproponi e vediamo il risultato finale! Solitamente si chiedono anticipazioni, nel tuo caso non voglio chiedere di più.


ioClaudio Aresi

“Vivo in provincia di Milano, mi autodefinisco fotografo per vizio, in quanto non essendo per me un lavoro è il mezzo che uso per appagare la mia curiosità nei confronti della vita e di tutte le sue sfaccettature. Amante della fotografia street, considero la strada un palcoscenico naturale dove gli attori sono i passanti che, inconsapevolmente raccontano la nostra società, gli usi, i costumi, i propri bisogni e i propri sentimenti.  Negli ultimi anni mi sto dedicando a progetti a lungo termine di reportage sociale. Amo sperimentare tecniche diverse come gli infrarossi e light painting. Dal 2016 sono membro della LPWA (Light Painting World Alliance).”