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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

Questa settimana abbiamo parlato con Giorgio Granatiero del suo primo libro, City Light. È possibile acquistare il libro a questo link.

Sei architetto, fotografo, o entrambe le cose?

Prevalentemente fotografo direi. Quando mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura di Cesena avevo idee ancora poco chiare su cosa fosse l’insegnamento dell’architettura, cosa aspettarmi. Inizialmente mi sono iscritto grazie alla passione per la fotografia. Già allora ero affasciato dal mondo delle immagini, della grafica e della pittura, oltre che della fotografia.

Per la tesina delle superiori avevo avuto modo di studiare il libro di Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, un testo che riflette sulla composizione e la percezione di varie forme: ero guidato ancora da scelte ispirate più alla Gestalt che non alla costruzione in sé.

Ma l’architettura e i diversi aspetti che gravitano intorno a questa disciplina, che ho appreso nel corso degli studi mi hanno aiutato anche in fotografia, mi hanno permesso di trovare un’identità ed un linguaggio fotografico. Tutto è partito dalla fotografia, per attraversare il campo dell’architettura, per poi tornare nuovamente alla fotografia, intesa dunque come strumento di indagine per l’architettura. Insomma: prima fotografo, poi architetto.

Parliamo del tuo libro, City Light, come mai hai scelto questo titolo?

Ho riflettuto molto sul titolo. Mentre ci pensavo ho creduto che dovesse sintetizzare queste due miei passioni per l’architettura e la fotografia, ed è per questo motivo che ho scelto due parole vaste di significato. Città e luce.

La città è l’argomento che prediligo rispetto allo studio dell’architettura. La facoltà dove studio è intitolata ad Aldo Rossi; i professori di oggi sono stati allievi del maestro pertanto i temi a lui cari, soprattutto quelli legati al testo L’architettura della città sono molto vivi.

Si tratta di un libro che non riflette tanto sul singolo edificio, quello che lui chiama elemento primario, quanto piuttosto sulla città tutta. Una architettura che guarda più all’urbanistica, che guarda a problematiche legate alla sistemazione delle periferie, di grosse aree urbane, argomenti anche molto contemporanei. La parola luce invece, oltre a fare riferimento alla fotografia come scrittura della luce, ha un altissimo valore simbolico e ha il potere di essere universalmente interpretabile. Quello che voglio dire è che per molti è una parola metaforica, un segno messo al posto di qualcos’altro. Per me è l’immagine di una rinascita, della scoperta che, come scriveva Luigi Ghirri “niente è antico sotto i raggi del sole”.

Questo titolo, questo libro, che è il mio tentativo di mostrarmi al mondo, è composto da parole di facile fruizione, volutamente memorabili, facilmente ricordabili: anche fraintendibili (che so, citylife pensando all’architettura di Milano). Si tratta di un lavoro che ha qualcosa in più delle mostre fatte in precedenza, è il risultato di un lavoro di anni e mira a un pubblico più vasto, non più locale ma italiano ed europeo. Parole semplici insomma, perchè anche il pubblico è una delle cose su cui rifletto. Quanto sia giusto arrivare a tutti.

È una sorta di difesa scegliere un titolo generico?

No, è stato voluto e in effetti c’è un sottotitolo più specifico, Exploring the european city.

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Come hai deciso le città che sarebbero entrare nel libro? Sono frutto di viaggi, incontri casuali, o in taluni casi le hai scelte per determinate caratteristiche.

Si tratta di una scelta progettuale. Per noi studenti di architettura la scelta progettuale è un must, diventa parte di te, cerchi sempre di progettare qualsiasi cosa. La scelta progettuale delle città è stata dettata prevalentemente dal concetto di città stratificata.

La città stratificata, che è una caratteristica unica della città Europea. Naturalmente nel mondo esistono tante città con una storia molto lunga, ma poter vedere la stratificazione, intendo fisicamente, dal vivo: il racconto della storia scritto sulle pietre è una prerogativa unica della città europea.

Insomma, capita di rado, fuori dall’Europa, di trovare una chiesa del ‘200 sotto un edificio dell’800 posto davanti ad un grattacielo in acciaio e vetro del nuovo millennio. Una cosa che succede per esempio a Londra, nel quartiere finanziario.

Dunque la scelta è stata dettata da questa parola chiave, la stratificazione urbana. In alcune occasioni, come quella della dancing house di Praga, sono andato in una città per fare una foto esattamente così come ora si può vedere all’interno del libro, è stata pianificata Non nego che ci siano state delle foto nate un po’ più per caso, ma questo è il bello della fotografia.

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Sono rappresentati tutti gli stati dell’Europa?

Non sono rappresentati tutti, sono prevalentemente dell’Europa Occidentale. Italia, Spagna, Olanda e poi Budapest che copre la parte più orientale. Regno Unito e Germania, inevitabile. Berlino e Monaco di Baviera in particolare. Il libro nasce da riflessioni maturate durante l’ erasmus che ho fatto proprio  a Monaco. Per via di un concorso di architettura inoltre ho avuto modo di visitare molte volte Berlino.

A Monaco gli edifici pubblici più importanti voluti da Massimiliano e Ludovico I, sono stati costruiti in stile neorinascimentale. La koningsbau , la residenza di  Mocao di Baviera è una copia di Palazzo Pitti di Firenze, così come le Feldherrnhalle, sempre di Monaco, che è una copia della Loggia della Signoria. Insomma i regnanti pensavano che lo stile rinascimentale fosse lo stile giusto per l’architettura pubblica, e quindi ricostruirono copie di edifici che in Italia erano già stati edificati tempo prima. Questo ha suscitato in me un tripudio di pensieri, perchè da questi spunti si capisce che le le forme sono archetipi in conclusione, e mi ha fatto pensare a quanto l’Europa si fosse parlata in questi ultimi secoli più di quanto io pensassi.

Le fotografie rappresentano sia spazi aperti che scorci o dettagli di città diverse. Il libro parla di una città immaginaria che si compone di tutte le fotografie che hai inserito nel libro?

City Light vuole essere un nome di città. Benvenuti a City Light insomma. Il libro inizia con un riferimento a Le città invisibili di Italo Calvino: “C’è un’ultima città di cui ti vorrei parlare, mia cara Kublai Khan”, come se Calvino se ne fosse dimenticata una, la Città della Luce.

Le fotografie all’interno del libro non sono accompagnate da descrizioni che indichino la posizione geografica se non nell’apparto finale, volutamente, così da creare una sorta di confusione circa la collocazione delle singole fotografie, perché non è più importante, visto che si tratta di una città invisibile, immaginaria.

Anche lo sviluppo del libro è creato in tal senso:  c’è un incipit, una foto di ingresso, e una foto di conclusione; per il resto sono tutte in sequenze di dittici. Una sequenza alla fine della quale dovrebbe emergere questa sensazione di città unica, e non tessere di puzzle differenti.

Come mai il formato quadrato?

Il libro è stato realizzato utilizzando diverse tecniche: ci sono fotografie realizzate in medio formato, così come ci sono fotografie realizzate con reflex digitale. Non mi pongo limiti riguardo la tecnica. La conosco e cerco di usare ogni macchina per le sue potenzialità. Una istantanea fatta di sfuggita in una metropolitana di Budapest era inevitabile farla con una reflex digitale, non sarebbe mai venuta uguale se avessi utilizzato un medio formato, o viceversa insomma.

Il formato quadrato l’ho imparato ad usare grazia ad una Mamiya c330, una macchina medio formato. Ho iniziato a scattare in analogico con questa, a sviluppare diversi rulli, il processo è diventato naturale con il tempo. Piccolo aneddoto: anche Chiaramonte agli esordi utilizzava questa macchina.

A parte questo anche quando uso il digitale non faccio che applicare le cose imparate ed acquisite con l’analogico: tecnica mista, ma sempre dall’analogico si parte.

Visto che hai citato Chiaramonte mi piacerebbe che mi parlassi del tuo rapporto con lui e della sua influenza, se così la possiamo chiamare.

Ho conosciuto Giovanni Chiaramonte all’università dove ho avuto la fortuna di essere uno fra i suoi ultimi studenti della facoltà di Cesena. Ora sono suo assistente, sto facendo con lui il tirocinio curricolare, ancora in corso. Sapevo che da qualche anno non accettava più tirocinanti, ma mi ha preso con sé grazie al libro, anzi, al menabò del libro che gli avevo presentato all’epoca.

Chiaramonete ha una caratteristica affascinante, ovvero di essere in grado di tenere una classe di fotografia senza mostrare o parlare dei suoi lavori. Lui ha un background di filosofia, e questo secondo me gli permette  di insegnare senza mostrare la fotografia, senza dover necessariamente analizare una composizione o una tecnica ma semplicemente parlando della fotografia, dice lui, in modo esistenziale.

Io apprezzo molto le sue fotografie, ma apprezzo ancora di più il modo in cui parla di fotografia, è un grande aiuto per dare una risposta alle grandi domande della fotografia.

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Sei riuscito a dare qualche risposta, con questo tuo primo libro?

Ci ho provato e credo di esserci riuscito. Da lui ho imparato un’altra cosa molto importante: l’umiltà, il mettersi da parte. Questa umiltà deve manifestarsi anche nei confronti della realtà, dall’amore per la realtà, perché questa è un dono, come dice lui. Siamo abituati a passare sopra alla realtà, non ci soffermiamo mai abbastanza su di essa.

L’amore per la realtà invece ti permette di guardarla con attenzione. Se riesci in questo allora sarai anche in grado di riscoprire scorci, visioni, che non pensavi potessero essere così belle e invece sono lì, davanti a te. Il sole le illumina in quel modo unico. Di fronte ad visione magica non puoi fare altro che guardarla con amore e dunque fotografarla con amore. Si tratta di un modo esistenziale di vivere la fotografia, di stare al mondo. Lasciarsi continuamente stupire, essere pronti a ricevere input dal mondo reale e saperlo guardare con attenzione.

Un’altra cosa che ho imparato da Chiaramonte, e grazie al consiglio di leggere la autobiografia di Richard Avedon, è il parlare di sé a prescindere dal progetto che un autore si pone: c’è sempre un modo per potersi raccontare attraverso le fotografie, che queste siano di nudo o di architettura, come nel mio caso.


Giorgio Granatiero

foto-profiloGiorgio Granatiero nasce a Venezia l’11 Agosto 1993, vive a Senigallia e dopo aver conseguito la maturità scientifica si iscrive alla Facoltà di Architettura dell’Università di Bologna. Compie un anno di studi presso la Technische Universität di Monaco di Baviera dove vince il primo premio in un concorso di Architettura a Berlino. Fin da piccolo coltiva la passione per la fotografia e cresce studiando i fotografi del gruppo Misa fra  cui Mario Giacomelli, Ferruccio Ferroni e Giuseppe Cavalli. Frequentando l’ambiente universitario cesenate entra in contatto con la fotografia di Luigi Ghirri e di Guido Guidi durante un corso svoltosi presso la Biblioteca Malatestiana. All’università è allievo di Giovanni Chiaramonte con cui tuttora collabora come assistente tirocinante. È vincitore nel 2012 di un concorso fotografico nazionale indetto dal Resto del Carlino che vanta tra la giuria il fotografo Nino Migliori. Nel senigalliese realizza tre mostre fotografiche personali: A forza di essere vento, Cattedrali e l’ultima, Fango, esposta presso la Biblioteca Antonelliana e di cui realizza con Simona Guerra e Giornate di Fotografia una performance fotografica in occasione dell’anniversario dell’alluvione di Senigallia del 2014.