Perché gran parte del Pd lombardo sostiene il referendum per l’autonomia?
È molto difficile far passare questo referendum come qualcosa di alieno all’universo politico leghista, nonostante i tentativi degli amministratori Pd.
È molto difficile far passare questo referendum come qualcosa di alieno all’universo politico leghista, nonostante i tentativi degli amministratori Pd.
Il grande giorno si avvicina: mancano pochi giorni al 22 ottobre, data in cui i cittadini lombardi saranno chiamati a votare al sondaggione referendum voluto dal governatore Maroni.
Solo quest’ultima frase potrebbe far pensare che tutte le forze di sinistra, vera o presunta, opposte a Maroni siano contrarie al quesito autonomista proposto dalla Lega Nord, dalle realtà autonome milanesi al Pd. Ma, come abbiamo scritto anche nei giorni scorsi, sorprendentemente non è così.
Il centrosinistra infatti si presenta diviso in almeno due fazioni. Ufficialmente, il Partito Democratico ha lasciato sulla questione libertà di voto ai propri iscritti lombardi. La parte più istituzionale del Partito è contraria al referendum, come il segretario regionale Alessandro Alfieri e il braccio destro di Renzi Maurizio Martina, che pongono l’accento soprattutto sull’inutilità e l’eccesso di spese della chiamata alle urne.
L’altra fazione è invece composta quasi esclusivamente da amministratori locali — soprattutto di alto livello — ed è schierata dalla parte del sì.
Tutto è cominciato subito dopo l’annuncio del referendum, lo scorso 29 maggio. Il giorno stesso, il sindaco di Milano Beppe Sala si è lanciato in una dichiarazione di supporto alla causa autonomista, sostenendo che, nonostante il referendum sia uno spreco di denaro, fosse da sostenere. “Consiglierò di votare positivamente,” aveva dichiarato all’epoca. “Questo non è un tema che appartiene alla Lega ma un po’ a tutti, e su cui il governo ha dato chiare aperture: a mio parere è un tema giusto. Ma il referendum è assolutamente inutile.” Come molti suoi compagni di partito, Sala ha storto il naso davanti al costo esorbitante della consultazione, che si aggirerà intorno ai 50 milioni di euro, interamente sborsati dalle casse regionali. Ma settimana scorsa è tornato a ribadire la sua posizione, come riporta un articolo di Repubblica:
“Tra la posizione del vice segretario del Pd Maurizio Martina che non andrà a votare al referendum per e quella del governatore Roberto Maroni che quel referendum l’ha promosso sto a metà – ha spiegato Sala – nel senso che condivido il fatto che si potevano trovare altre formule e non fare il referendum, però voterò sì. Il mio invito è ad andare a votare nella consapevolezza che il referendum si poteva anche evitare. Ormai il referendum c’è, quindi andiamo a votare e votiamo sì.”
Inoltre, ha aggiunto Sala nella stessa occasione, “nel limite delle sue possibilità” continuerà a fare campagna con i sindaci, preoccupato soprattutto di una cosa: spiegare alla cittadinanza a cosa serve il referendum.
“La campagna però deve servire soprattutto a una cosa: spiegare a cosa serve questo referendum, a cosa mira e cosa può cambiare, perché io temo che la gente non l’abbia ancora capito. Bisogna far capire che non è deliberativo, ma avvia un percorso. Da questo punto di vista capisco che c’è ancora ignoranza.”
Il primo cittadino di Milano è stato fin da subito in ottima compagnia. A fine giugno si è costituito il comitato per il sì, con la partecipazione dei sindaci di tutti i capoluoghi lombardi in mano al Pd: Milano, Varese, Como, Lecco, Bergamo, Sondrio e Mantova — ma non Pavia, il cui sindaco Depaoli ha deciso di non aderire. Il fronte è capitanato, oltre che da Sala, dai sindaci di Varese e Bergamo, che più degli altri hanno fatto campagna per le ragioni del sì.
Davide Galimberti, primo cittadino di Varese, non è nuovo al sostegno di referendum di conclamata inutilità. Nella primavera 2016, durante la campagna elettorale comunale, aveva dichiarato che il suo stipendio sarebbe stato stabilito da un referendum, come mossa di trasparenza. Le elezioni sono state vinte dalla sua coalizione ma del referendum ancora nessuna traccia, e l’opposizione comunale ora ha buon gioco a rinfacciarglielo. Galimberti ha la fama di politico coriaceo.
La vera star del fronte del sì, però, è il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Non perché la città orobica sia più importante di Varese, ma perché Gori è il probabile candidato del centrosinistra alle prossime elezioni regionali, che si avvicinano inesorabili. Gori è un acceso sostenitore della necessità di una Lombardia più autonoma e del votare sì alla consultazione referendaria, MA è anche convinto che l’amministrazione regionale che lo promuove — e che sarà la sua sfidante se, come probabile, sarà il candidato del centrosinistra alle elezioni regionali — stia diffondendo notizie false a scopo di propaganda referendaria, e dunque la sta screditando.
Non proprio una posizione politica chiarissima.
È facile supporre che il sindaco di Bergamo stia inseguendo Maroni su qualcosa che, in prospettiva elettorale, gli riuscirebbe difficile da giustificare nella provincia lombarda. L’anno prossimo si va a votare, e quanti voti potrebbe sperare di raccogliere nelle valli insubriche o nella bassa cremasca in un elettorato solitamente molto affezionato a tutti i più tipici ritornelli leghisti?
Abbiamo parlato con Enrico Brambilla, capogruppo del Pd nel Consiglio regionale lombardo, che recentemente ha dedicato un libro intero sul referendum, Referendum inutile e l’autonomia necessaria, che tratta appunto in maniera approfondita il referendum e la storia dell’autonomia regionale lombarda.
“Ho deciso di scrivere questo libro perché del referendum si è parlato molto poco. Non ci sono altre pubblicazioni e circolano molte false informazioni e false verità a riguardo, specie dopo il referendum in Catalogna. Volevo anche rivendicare il fatto che l’autonomia è un pezzo di storia del centrosinistra lombardo.”
Come molti altri nel suo partito, Brambilla è favorevole a una maggiore autonomia regionale, ma contrario al referendum proposto da Maroni. “L’autonomia è giusta se circoscritta a materie precise, se praticata con criteri di equilibrio. Non sono per l’autonomia incontrollata, per dire deleghe in bianco a Maroni. Inoltre non c’è solo l’autonomia regionale — dev’essere esercitata anche con gli enti locali inferiori: province e comuni.”
Riguardo alla scelta del sì degli amministratori lombardi, invece, “è una scelta che non condivido, pur comprendendola. Spero che non sia dettata da calcoli tattici ma dalla volontà di non abbandonare del tutto il campo dell’autonomia in mano al centrodestra.”
Tuttavia, come la politica europea anche più rilevante di questi anni ha dimostrato, inseguire la destra su idee o iniziative di destra non è mai una buona idea, perché si finisce col diventare di destra a propria volta. E gli elettori, giustamente, si domandano: perché dovremmo votare la destra farlocca quando quella originale è già così efficiente?
È molto difficile far passare questo referendum come qualcosa di alieno all’universo politico leghista e più in generale della destra ruspante norditaliana, nonostante i tentativi degli amministratori Pd. Alimentare i desideri di autonomia portati avanti da certe forze politiche significa prendere parte a una politica che incentiva le disuguaglianze all’interno del paese. Sostenere, come fanno gli amministratori locali Pd lombardi, che una maggiore autonomia della propria regione — soprattutto se ottenuta inseguendo la Lega in questo modo — equivalga a un maggiore benessere per i propri cittadini significa ammettere in maniera implicita che tutto quanto ha detto la Lega sui meridionali è vero.
Da esponenti di spicco di un partito che bene o male si rivolge ancora tutto il paese ci si potrebbe aspettare un po’ di inclusività in più in questo senso. Se poi questo partito si vuole ancora definire progressista — non è affatto detto, come sappiamo — potrebbe impostare una politica seria di rilancio del Sud Italia, attesa da centocinquant’anni (!) e mai veramente sperimentata. E che, pare, verrà lasciata nel cassetto ancora a lungo: la tentazione nell’Europa contemporanea, una volta caduti i muri che dividevano oriente e occidente, è innalzare muri tra ricchi e poveri, su iniziativa dei primi. È questo il vero motore, purtroppo, della maggior parte degli indipendentismi continentali.