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Che l’Italia non fosse esattamente il paese più informato circa le questioni di genere, si sapeva. Che il femminismo sia ancora visto, qui, come qualcosa di strano, inopportuno, o semplicemente non necessario, non è affatto una novità.

Tuttavia — seguendo l’imperitura regola per cui al peggio non c’è mai fine — nelle scorse settimane, al seguito degli stupri di Rimini e di Firenze, abbiamo potuto assistere a uno spettacolo pirotecnico di opinioni sconcertanti, editoriali agghiaccianti, e altre cose che fanno un po’ riflettere sul giornalismo italiano.

Per chi si fosse perso lo spettacolo, qui e qui un breve recap dell’orrore.

Alla luce di tutto questo sorge spontanea una domanda: dove sta l’informazione femminista? Dove stanno le versioni italiane di Refinery29, di Bitch Media, pure dell’Huff Post Women, tutti quei canali che, oltreoceano, in una situazione simile avrebbero fatto sentire la propria voce? Perché sì, di certo la situazione statunitense è molto diversa, di certo hanno una tradizione femminista che nulla ha che vedere con la nostra, tutto vero, tutto lecito. Il background storico-culturale di un paese, però, può essere la motivazione di un fenomeno — o dell’assenza di esso — non la scusa per fare continuamente spallucce.

L’Italia ha bisogno di un’informazione specificamente femminista, informata, seria, in primis perché — come si è potuto notare — le testate nazionali non sono ancora in grado di gestire l’argomento senza un qualche imbarazzo. Esempio lampante, oltre a quelli contenutistici sopra citati, l’iniziativa del Corriere Il Tempo delle Donne, rassegna dalle enormi potenzialità, vanificate da un programma che lascia l’amaro in bocca — per non parlare del fatto che la prima mail della newsletter “Futura” si apriva con una riflessione sul fatto che “come tutti sanno, gli uomini preferiscono le più giovani, quindi una donna di mezz’età fidanzata con un uomo più piccolo di lei deve arrendersi all’ansia di avere i giorni contati”. Scritto da una donna, ovviamente.

Pare, spesso e volentieri, che nel nostro paese manchi ancora una cultura femminista che parta dalle basi — sì, anche gli uomini possono essere femministi, no, femminismo non significa prevaricazione della donna sull’uomo, no, le femministe non odiano gli uomini e non uccidono i bambini, sì, una femminista può volere una famiglia — concetti evidentemente non chiari a tutti.

L’Italia ha, nel suo piccolo, un’informazione femminista che sta lentamente prendendo piede e si articola tra riviste online e pagine Facebook. Non sempre, però, andando nella parte giusta.


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Guardando i numeri, le due pagine femministe — o che si professano tali — più seguite in Italia sono Freeda (899k di utenti) e Alpha Woman (793k). Buttiamo un occhio ai contenuti.

Freeda, rivista online nata nel 2016 e vero fenomeno mediatico dell’ultimo anno, è in questi giorni al centro di polemiche inerenti alla sua vera finalità: finanziata da società che fanno capo alla famiglia Berlusconi, Freeda sarebbe, citando l’articolo di Dinamo, “un progetto editoriale iper-aggressivo dove i contenuti femministi o pseudo-tali funzionino come cavallo di Troia per diventare parte delle «conversazioni» delle giovani millennial, in modo poi da vendere l’enorme quantità di dati così ottenuti alle imprese che vogliono sfruttare quel target per le proprie strategie aziendali”.

A chiunque rimanga scioccato, benvenuto nel mondo dell’economia di internet.

Sia chiaro, lucrare su un ideale non è mai bello, ma Freeda non è che l’ultimo della lista. E poi, a ben guardarla, questo è anche il suo ultimo problema.

Freeda, con le sue immagini fluo e i suoi mini video, si inserisce in quello che potrebbe essere definito un femminismo di stampo USA, fatto di donne che si auto-affermano, che fanno carriera, che parlano liberamente di tutto quello che vogliono. E fin qui tutto alla grande. Il problema è che il messaggio viene qui condito da una eccessiva foga di mostrare il colore rosa, i gattini, i rossetti, lo shopping compulsivo.

Intendiamoci, una donna deve sentirsi libera di poter indossare il rosa, amare i gattini, provare i rossetti, fare shopping, ma può anche parlare di politica, di letteratura — non solo romantica — analizzare l’attualità e la storia. Sarebbe ingiusto dire che Freeda non si occupi di questioni più gravi dello smalto sbeccato, tuttavia è indubitabile che la percentuale di contenuti frivoli — confezionati alla perfezione, con grafiche oggettivamente accattivanti e ben fatte, ma pur sempre frivoli — sia esponenzialmente maggiore. Che sia solo una questione di marketing, o meno, quello che ne risulta è, alle volte, una ridicolizzazione del tema.

Però del buono in Freeda c’è. La sessualità, il corpo della donna, il “girl power” sono tematiche di fondamentale importanza, oggi più che mai e, citando un ottimo articolo della direttrice di Cosebelle Mag Teresa Bellemo:

Il femminismo è una questione di uguaglianza, non è una stelletta da meritare. E l’uguaglianza credo passi anche attraverso una “poppizzazione” di questo concetto. Lasciare soltanto a chi possiede l’etica degli ideali la possibilità di divulgare questi ultimi fa sì che rimangano un dato assodato solo per chi si merita la stelletta, per chi fa parte di questa cerchia, sempre troppo piena di custodi e di barriere all’entrata; oltre che sempre oggetto di sorpassi in purezza da chi può vantare un’etica ancor più forte.

Il femminismo non ha bisogno di questo. C’è posto per tutti. E per arrivare alle quindicenni, ai quindicenni, forse, ha bisogno dei video di Freeda dove una volta si parla di dove vanno a finire i calzini in lavatrice e in quello dopo delle 5 frasi sessiste che sentiamo ma che non vorremmo sentire più. Quei video non parlano a me, ma forse rendono più scontato un messaggio che per molti miei coetanei risulta ancora stonato.

Certo, bisognerebbe bilanciare meglio le due facciate, riuscire a parlare anche di femminicidio o di stipendi parificati, ma per farlo serve far capire che il femminismo non è un movimento di cattive ragazze e di vecchie pazze.

Fondamentale è, in questo senso, rivolgersi ai giovanissimi. A tal riguardo è d’obbligo analizzare la seconda pagina più seguita, Alpha Woman.

Ecco, iniziamo a dire che, come portata distruttiva, Alpha Woman sta a Freeda come l’uragano Irma  sta ai temporali di poche ore su Milano nord — brevi ma intensi, fanno esondare il Seveso, arrugginiscono qualche auto, ma nulla di più.

Alpha Woman nasce come una sorta di Sesso Droga e Pastorizia al Femminile, una pagina che, a colpi di meme, vuole mostrare come non tutte le donne debbano amare le principesse. Usa l’ironia, quella stessa usata per i post maschilisti, per bersagliare gli uomini e, come tante delle pagine maschiliste, si giustifica ricorrendo a questa presunta ironia, per cui, se te la prendi, semplicemente devi darti una calmata e capire come funziona il mondo.

Da un rapido sguardo ad Alpha Woman capiamo che:

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è giusto fare bodyshaming sugli uomini.

ma anche sulle donne — perchè attenzione, il punto non è avere un corpo sano, ma che se sei magra fai schifo.

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che è giusto criticare la gente per come si veste, ancora meglio se possiamo prendere i giro qualcuno per il proprio aspetto fisico.

Per non parlare di post di questo tipo, che non è nemmeno il caso di commentare.

Quello di Alpha Woman altro non è che maschilismo trasposto — a partire dal nome della pagina, che si rifà al concetto di maschio alpha, che altro non fa che giustificare il machismo — un uomo deve avere la barba, non depilarsi, godere di un presunto priapismo. Ne emerge una donna che vuole assomigliare a quel tipo di uomo ispirandosi a quella stessa ideologia che è causa della sua stessa discriminazione.

Un’informazione femminista in Italia serve, e 793 mila persone, di cui la maggior parte donne di giovanissima età, che reputano questi contenuti non solo divertenti, ma anche in qualche modo  “femministi” ne sono la prova.

Piccoli esempi di buon femminismo ci sono, tra Bossy, Soft Revolution, Cosebelle Mag e, soprattutto, la pagina di Non Una Di Meno, ma i grandi numeri sono tutto un altro discorso, e mostrano un panorama a tinte piuttosto fosche.


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