In ex Jugoslavia sulle tracce degli Spomenik, i monumenti alla resistenza voluti da Tito
Gli spomeniki (letteralmente “monumenti”) sono tantissimi, perlopiù esclusi dalle rotte turistiche e in stato di semi-abbandono.
foto di Giacomo Panzeri
La Jugoslavia, quello che ne rimane e quello che rimane dei suoi conflitti, si vede uscendo dal tracciato consigliato dalle guide, noleggiando una vettura a piacere e rinunciando all’autostrada.
Quando si intraprende un viaggio verso le repubbliche della ex Jugoslavia, convinti magari di riuscire a conquistare un angolo di bel mondo non troppo inflazionato, si viene di norma dirottati verso località ormai piegate al turismo, sebbene non ancora di massa. Si finisce, volenti o nolenti, sulle non più così economiche coste croate — a Rovigno, a Pola, a Dubrovnik — o in città pittoresche, forse troppo, come Ljubljana. Città che meritano una visita, ma che costringono inevitabilmente nel ruolo di turista medio, recluso nei luoghi a lui preposti: il ristorante tipico per turisti, il negozio di souvenir per turisti, i locali notturni e le spiagge per turisti.
La Jugoslavia, quello che ne rimane e quello che rimane dei suoi conflitti, si vede uscendo dal tracciato consigliato dalle guide, noleggiando una vettura a piacere e rinunciando all’autostrada. Si entra così nella Jugoslavia autentica, dove l’immagine e il nome di Tito ancora campeggia sulle targhe commemorative e sui cartelli della toponomastica, affianco ai fori dei bossoli e agli edifici segnati dalla recente guerra.
Sparsi su tutto il territorio della vecchia federazione socialista, nascosti allo sguardo dei più, lungo le strade provinciali o nei giardini pubblici, sono stati eretti nel corso del lungo regime titino dei monumenti molto particolari, perlopiù ignoti all’estero. Centinaia di opere in stile futurista, spesso enormi, a ricordare la resistenza jugoslava contro il nazifascismo.
Vengono chiamati semplicemente “spomenik,” “monumento” in serbo–croato, e sono stati riscoperti di recente anche grazie al sito Spomenik Database, che cerca di farne una mappatura. Un’operazione complessa, perché di spomeniki ce ne sono tantissimi, letteralmente ovunque.
Tito in persona ne aveva commissionati alcuni, fornendo precise indicazioni in merito alla collocazione e al progetto. Il loro fine — così immaginava il maresciallo — non doveva esaurirsi con la mera testimonianza.
I monumenti sarebbero dovuti essere luoghi di educazione civica, ai valori dell’antifascismo, del socialismo e dell’amor patrio.
Di lì, la presenza di strutture collegate, idealmente simili a piccoli anfiteatri circolari, deputate ad accogliere gruppi di persone in assemblea. Sono numerosi, tuttavia, gli spomeniki voluti e finanziati dalle comunità locali per ricordare i propri caduti.
Lo stile adottato nella loro realizzazione non ha eguali né precedenti: era infatti esplicito intento del regime creare forme espressive uniche, figlie dell’esperienza della resistenza – esperienza che aveva unito pacificamente sotto un solo nome popoli prima d’allora (e anche dopo) in guerra fra loro. Almeno, questa doveva essere la narrazione ufficiale. Da una parte, infatti, serbi, croati, bosniaci, sloveni, albanesi, macedoni, bosgnacchi avevano combattuto spalla a spalla contro le truppe dell’Asse. Ma dall’altra rimanevano sul suolo jugoslavo molti gruppi che avevano collaborato coi nazifascisti o che semplicemente non condividevano la politica titina. Le fratture da ricomporre erano profonde e di varia natura: etnica, religiosa, politica, sociale. Persino all’interno delle forze comuniste, a seguito della drastica rottura tra Tito e Stalin, il dissenso rischiava di mettere a repentaglio la stabilità del Paese. E allora ecco spiegato il perché di questa insistenza: un’unica arte egemone e inedita per uno Stato unitario, per rafforzare il senso di una fragile identità nazionale condivisa, fondata sulla lotta contro un nemico comune.
Una commissione apposita era deputata alla selezione del progetto che più si avvicinasse a quest’ideale e che rispecchiasse la via jugoslava al socialismo. Nella costruzione di uno Stato giovanissimo e artificiale come quello jugoslavo, più della propaganda e del culto del leader, che pure furono largamente impiegate, avrebbero potuto la cultura e l’istruzione.
Ma la sfida si rivelò al di sopra delle capacità di Tito e più ancora dei suoi epigoni. La sua creatura non gli sopravvisse a lungo, e così i suoi simboli. Dopo la morte del maresciallo, negli stessi anni in cui la Jugoslavia si disgregava e venivano poste le premesse per una guerra fratricida, molti spomeniki vennero danneggiati o distrutti.
Di quelli rimasti, larga parte versa in uno stato abbandonato e fatiscente. È probabilmente l’aspetto dimesso, l’aura malinconica che li avvolge, a donare loro un fascino strano, o forse il fatto che in questi colossi di pietra si riassumano settant’anni di storia recente. La loro ricerca può essere un ottimo pretesto per scoprire il vero volto di questi territori, dimenticando per un attimo le stupende città costiere del periodo veneziano e affacciandosi su ciò che resta escluso dalle guide.
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