What?

DIAFRAMMA • #takeover di @danilogarciadimeo Danilo nasce a Roma, dove attualmente vive e lavora. Dopo il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti, dove si specializza in Grafica e Fotografia, frequenta Masterclass presso la Leica Akademie Italy a Milano con Marc De Tollenaere, a Roma presso Officine Fotografiche con il photo editor National Geographic Marco Pinna, e attualmente continua la sua formazione con Lina Pallotta. Collabora con l’artista e fotografo Marcello Di Donato e, attualmente, come freelance con diverse Onlus, Associazioni e Festival per la realizzazione di reportage, soprattutto in ambito sociale. Il reportage, il racconto di persone e luoghi, lo avvicinano alla fotografia sociale. Nel 2016, il suo progetto “Letizia – Storia di vite non viste” vince il Gran Premio all’Andrei Stenin International Presso Photo Contest. Conversazione con il fotografo in bio↑ #photography #photojournalism #reportage #streetphotography

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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Danilo Garcia Di Meo del suo progetto WHAT? che racconta la storia di Ambra, una ragazza sorda, delle sue difficoltà e delle sue passioni.


Danilo Garcia Di Meo nasce a Roma, dove attualmente vive e lavora.
Dopo il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti, dove si specializza in Grafica e Fotografia, frequenta Masterclass presso la Leica Akademie Italy a Milano con Marc De Tollenaere, a Roma presso Officine Fotografiche con il photo editor National Geographic Marco Pinna, e attualmente continua la sua formazione con Lina Pallotta.
Collabora con l’artista e fotografo Marcello Di Donato e, attualmente, come freelance con diverse Onlus, Associazioni e Festival per la realizzazione di reportage, soprattutto in ambito sociale.
Il reportage, il racconto di persone e luoghi, lo avvicinano alla fotografia sociale.
Nel 2016, il suo progetto “Letizia – Storia di vite non viste”  vince il Gran Premio all’Andrei Stenin International Presso Photo Contest.

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Perché hai scelto la fotografia?

A dire il vero ho una formazione più da grafico che da fotografo. Ma la fotografia è sempre stata una costante: in casa sono cresciuto con mio padre che è da sempre un appassionato. Anche oggi, nonostante il fare fotografia abbia preso una piega nuova e diversa, e sicuramente ho più conoscenza del mezzo, chiedo spesso consigli a mio padre. Con il passare degli anni ho preso consapevolezza che la fotografia poteva essere uno strumento di rappresentazione e di espressione. Ora che ho compreso su cosa voglio far rivolgere il mio sguardo, fotografare è diventata una necessità.

Qual è il tuo campo di interesse?

Da adolescente mi dedicavo al paesaggio, poi mi sono avvicinato alle storie delle persone. Il passaggio intermedio è stato un lavoro seriale di persone che hanno fatto della propria passione un lavoro. Di recente invece ho avuto la fortuna di realizzare un progetto che mi ha dato tanto, Letizia-story of unseen lives, grazie al quale ho ricevuto anche diversi premi.

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Raccontaci brevemente l’esperienza di Letizia.

Letizia è una ragazza affetta da tetraparesi spastica, fatto che le impedisce di svolgere la quasi totalità delle azioni, ha sempre bisogno di qualcuno. Nonostante questo è una ragazza di una vitalità incredibile. Letizia l’ho seguita per circa due anni in ogni momento della sua vita, cercando di raccontare quello che questa ragazza è in grado di fare, grazie all’aiuto di chi le sta vicino, ma soprattutto grazie alla sua tenacia.

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Ti rispecchi nel campo del reportage sociale?

Il termine reportage io lo uso per fare capire che non stai facendo un matrimonio o foto di studio, però lo trovo molto vago, così come il termine sociale. Con sociale si può dire tutto e niente: la fotografia da chi è fatta? Per chi è fatta? Negli ultimi anni uso il termine fotografia sociale per provare a definire il mio taglio personale: una fotografia che non è destinata solo agli addetti al settore, ma è dedicata anche a coloro che ne usufruiscono. È importante secondo me parlare di storie che generalmente possono essere ignorate dalla maggior parte delle persone. La fotografia non può cambiare il mondo, ma se mostra qualcosa che sta sotto agli occhi di tutti, chissà, può anche innescare una discussione: è questo che, utopicamente parlando, mi piacerebbe si realizzasse.

Ambra, la protagonista di WHAT? Come l’hai conosciuta?

Ambra è una ragazza sorda che non conoscevo prima di iniziare il progetto. L’ho conosciuta tramite dei racconti di un amico. L’ho contattata per incontrata, così da spiegarle tutto ciò che mi aveva fatto avvicinare a lei. Dopo averle fatto vedere qualche mio lavoro, ha accettato, e con mia sorpresa ho scoperto una persona aperta, che non è un fatto da ritenere scontato. Nel corso del tempo abbiamo stretto un legame di amicizia, trascorrendo serate tra amici, cene, perfino la sera del 25 dicembre insieme, avendo così l’opportunità di raccontare momenti che solo all’apparenza sono banali o perfino inutili; in realtà mi hanno aperto le porte alla personalità di Ambra nel suo complesso.

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Come si è sviluppato il progetto?

Non essendo all’inizio molto in confidenza con lei, ho lavorato inserendo la macchina fotografica gradualmente. I primi incontri sono stati necessari per una conoscenza personale. Lei ha alcune peculiarità che sradicano un po’ il luogo comune: va a ballare in discoteca e fa boxe. Però in Italia i disabili non hanno vita facile: inoltre, una donna con una disabilità più o meno grave è doppiamente penalizzata.

Questi sono i primi aspetti che volevo approfondire, anche se mi sono reso conto che avrei banalizzato la persona ed il tema. È una persona dotata di tanta autoironia e consapevolezza: sente più dall’orecchio destro che non da quello sinistro, dove si è fatta tatuare la scritta “what?” a sottolineare questa sua ironia. Sull’orecchio sinistro porta un apparecchio acustico. Spesso scherza sulla sua sordità: dice che è felice di questa caratteristica perchè è grazie alle sfide che ne derivano che è riuscita a maturare consapevolezza e diventare la donna che è oggi.

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Oltre alla musica che ascolta e la passione del pugilato, Ambra è anche una artista: scrive, disegna, dipinge. Avendo vissuto momenti diversi della sua giornata, ho deciso di raccontare non solo le cose note o più incisive, in molte fotografie vengono fuori tutte queste sue passioni. Alcuni colleghi mi hanno detto che avrei dovuto palesare maggiormente la sordità, rendere più visibile l’apparecchio acustico per esempio, ma mi sono reso conto che io volevo parlare della donna, non solo di una ragazza sorda.

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Nei tuoi lavori ci sono due donne, raccontate singolarmente, accomunate da una difficoltà di comunicazione. La comunicazione nei loro confronti, come ha inciso?

Vorrei prima fare un passo indietro, tornando a Letizia, (dal progetto Storie di vite non viste) mi sono reso conto che forse c’è un fil rouge che lega questi due lavori. Nel lavoro su Ambra ho rivisto molte cose in comune con Letizia, sebbene mi sia staccato da un filone ben preciso per non ripetermi: fare storie simili non ha molto senso, non aggiungi nulla al già detto, anche all’esperienza personale umana.

Ad ogni modo non credo sia un caso aver ripreso due donne: probabilmente mi ritrovo in alcune problematiche che vivono più le donne che non gli uomini. Dati alla mano, è vero che le donne hanno maggiori problematiche. Per quanto riguarda il linguaggio, nel caso di Letizia ho avuto modo di impararne uno nuovo. Lei capisce tutto, ma la difficoltà risiede nel parlare: la sua comunicazione avviene grazie ai movimenti della testa e degli occhi: grazie all’e-tran, lettera dopo lettera, costruisce le parole che vuole condividere. Senza questo si va per tentativi, ma con Letizia posso assicurare che si riesce a parlare di tutto, basta rispettare i suoi tempi.

Con Ambra è stato leggermente più semplice, principalmente grazie all’apparecchio acustico che le permette di sentire i suoni isolati. Inoltre ha un lessico molto ampio e parla anche inglese. Questo è un aspetto raro perché la maggior parte delle persone che soffre di questa disabilità non è in grado di parlare: Ambra, al contrario, non conosce il linguaggio dei segni.

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Il titolo del progetto prende spunto dal tatuaggio?

Quel tatuaggio è una cosa che ho sempre voluto fotografare, sebbene ci abbia messo del tempo prima di farlo. Inizialmente non avevo neanche pensato al titolo del progetto, è stato guardando la foto che mi venne in mente di dare questo titolo al progetto. È una parola che racchiude due aspetti importanti: uno è l’incomprensione, intesa in senso letterale, che implica i momenti in cui Ambra non coglie qualche parola e chiede spesso Che? Cosa?; l’altro è in senso metaforico, sulla sordità della società nei confronti di queste tematiche.

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Come presenterai il progetto che verrà mostrato in anteprima al Festival Riaperture?

Ci sarà un testo introduttivo ma, soprattutto, metterò a disposizione delle cuffie insonorizzanti, sarà così possibile isolarsi, proiettarsi dentro il lavoro e le emozioni di Ambra.