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David Crosby, Lighthouse

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Non a tutti è dato di invecchiare con stile, soprattutto se si è un musicista o, ancora peggio, una pietra miliare della musica. È facile finire a cercare di replicare vecchi successi, perdere la vena creativa, comportarsi come se si fosse ancora giovani e risultare solo caricature un po’ patetiche di un passato glorioso.

Qualche mese fa stavo guardando il concerto per i 75 anni di Joan Baez e il momento che mi ha più colpito è stato il duetto sulle note di Blackbird con il coetaneo David Crosby: i caratteristici baffoni sono ormai candidi, ma il piglio è lo stesso di un tempo — due voci e una chitarra, tanto è bastato. Per questo, non appena ho sentito che usciva il nuovo disco di Crosby l’ho ascoltato con curiosità ma in cuor mio ero già preparato a un tuffo nel passato e nulla di più.

E invece mi sono sbagliato.

Lighthouse non è un album che farà la storia come If I Only Could Remember My Name, ma è originale e fresco e prova che David Crosby ha veramente ancora qualcosa da dire.

Certo in alcune tracce, come nella più decisa The City, si hanno ancora dei — è il caso di dirlo — Dejà Vu del passato, ma sono solo echi: il resto è materiale nuovo, testi nuovi, suoni nuovi.

Crosby sceglie di puntare tutto sulla chitarra e sulla voce, che suona ancora miracolosamente giovane: gli arrangiamenti completamente acustici, senza ombra di percussioni, creano un’atmosfera intima e raccolta, quasi sospesa nel tempo.

Come per il precedente Croz, del 2014, si rivela vincente la collaborazione con compositori giovani e questa è la volta di Michael League, della band jazz fusion Snarky Puppy: Crosby ha sempre sostenuto l’importanza del fare musica insieme perché, come afferma in una recente intervista,“aumenta il tuo numero di opzioni, aumenta la quantità di informazioni a disposizione, aumenta la qualità della musica. […] I cantautori si comportano spesso in modo egoista, non vogliono dividersi il merito, non vogliono dividersi i soldi. È una scelta miope. Molti addirittura hanno sviluppato un tale ego da non riuscire a lavorare più con nessuno. Ma vi assicuro che invece è divertente.”

E il risultato è un album dai colori delicati ma di un’intensità particolare: la scrittura è semplice ma efficace, le sonorità fluttuano tra il folk e il jazz e le armonie vocali, che sono un po’ il suo trademark, accentuano l’effetto onirico dell’insieme. Le tematiche sono varie, anche se tendenzialmente introspettive, e vanno dalla poesia per la moglie di (Things We Do For Love) alla dedica a New York di (The City), soffermandosi spesso sulla rilettura del passato, come nell’amara Somebody Other Than You, in cui lascia andare un “Shame on me /  for thinking I could be / somebody who is free.” Ma nella tracklist trovano spazio anche temi di attualità, come in Look In Their Eyes, dedicata ai rifugiati siriani.

Lighthouse è un ascolto caldamente consigliato, che fa bene alle orecchie e un po’ ci rincuora per il futuro, dimostrando che, quando si mantiene una mente aperta e creativa, l’età è veramente solo un numero.

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